Le fonti letterarie e storiche
POLIBIO
STORIE
Estratti Libro III
BIBLIOGRAFIA: POLIBIO - STORIE - Traduzione di Carla Schick
Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. - Milano - IV ristampa Oscar
classici- agosto 1996
88. Annibale, spostato di poco l'accampamento,
si fermò nella regione presso l'Adriatico e, facendo lavare i cavalli con vino
vecchio, di cui vi era grande abbondanza, li guarì dalla scabbia che li
tormentava; similmente curò pure i soldati feriti e ristorò i rimanenti,
rendendoli vigorosi e pronti alle imprese future. Attraversando il territorio
dei Pretuzi, di Adria, dei Marrucini e dei Frentani, lo devastò, poi continuò
il suo cammino, marciando in direzione della Iapigia. Questa si divide in tre
parti, abitate rispettivamente dai Dauni, dai Peucezi, dai Messapi: Annibale
penetrò dapprima nel territorio dei Dauni, e avendo iniziato da questi la sua
opera di distruzione, devastò il paese a partire da Luceria, colonia romana.
Accampatosi quindi intorno a Vibonio, fece una scorreria nel territorio di Argirippa
e depredò impunemente tutta la Daunia. Contemporaneamente Fabio, appena entrato
in carica e celebrati sacrifici agli dei, partì con il capo della cavalleria e
le quattro legioni arruolate per l'occasione. Riunitosi presso Narnia con
l'esercito accorso in aiuto da Rimini, esonerò Gneo, il console in carica, dal
comando per terra e lo mandò con una scorta a Roma, con l'ordine di prendere le
misure che le circostanze richiedessero, qualora i Cartaginesi tentassero
qualche movimento per mare. Egli stesso con il collega e con tutto l'esercito
si accampò di fronte ai Cartaginesi, presso la città detta Ece, alla distanza
di circa cinquanta stadi dai nemici.
89. Annibale, informato dell'arrivo di Fabio,
volendo atterrire subito l'avversario al primo assalto, condusse fuori le sue
forze e, avvicinatele all'accampamento romano, le fece schierare in ordine di
battaglia. Avendo aspettato un po' di tempo, poiché nessuno usciva contro di
lui, si ritirò nuovamente nel suo campo. Fabio aveva formulato il piano di non
esporsi al rischio di una battaglia, ma di mirare come a primo e massimo scopo
alla sicurezza del suo esercito, e a tale sua decisione si attenne saldamente.
Da principio era disprezzato e tacciato di viltà e timore di fronte al
pericolo, col tempo invece costrinse tutti ad ammettere e a riconoscere che non
sarebbe stato possibile, in quelle circostanze, regolarsi con maggiore prudenza
e assennatezza. Ben presto anche i fatti diedero ragione ai suoi metodi: né vi
è ragione di meraviglia. I soldati del nemico si erano fin dalla prima età
continuamente esercitati nelle azioni di guerra, avevano un generale cresciuto
in mezzo a loro, abituato bambino alla vita militare, erano già riusciti
vittoriosi in molte battaglie in Iberia, due volte di seguito avevano sconfitto
i Romani e i loro alleati e, soprattutto, rinunciando a tutto il resto, avevano
riposto nella vittoria l'unica speranza di salvezza: l'esercito romano era in
condizioni esattamente opposte. Non era dunque il caso di cimentarsi in una
battaglia decisiva in condizioni di evidente inferiorità e Fabio, individuati
col ragionamento gli elementi che gli erano favorevoli, cercò di guadagnar
tempo, per valersene nella condotta della guerra. Il vantaggio dei Romani
consisteva nell'abbondanza di mezzi e nella superiorità numerica.
90. Perciò nel periodo successivo egli
continuò a muoversi parallelamente al nemico e sempre, data la sua esperienza
dei luoghi, riusciva ad occupare preventivamente le posizioni favorevoli.
Rifornito in abbondanza di viveri dall'entroterra, non permise mai che i
soldati foraggiassero né comunque si allontanassero neppure una volta
dall'accampamento, ma, tenendoli sempre raccolti e uniti, aspettava di poter
approfittare dei luoghi e delle circostanze favorevoli. Sorprese invece ed annientò
in questo modo molti nemici che, pieni di dispregio per i Romani, si erano
allontanati dal loro accampamento per foraggiare. Questa sua tattica aveva lo
scopo di ridurre ulteriormente il numero già strettamente limitato dei nemici e
nello stesso tempo di sollevare e rassicurare a poco a poco con quei successi
parziali il morale dei suoi soldati, abbattuti dalle gravi sconfitte subite.
Invece Fabio non si sentiva affatto in grado di scendere, d'intesa col nemico,
a una battaglia decisiva. La sua tattica però non piaceva per nulla al suo
collega Marco, che, essendo dello stesso parere dei soldati, accusava Fabio di
condurre la campagna con vigliaccheria e irresolutezza, mentre egli era
impaziente di scendere in campo e affrontare la battaglia. 1 Cartaginesi,
devastate le località sopra enumerate, varcarono l'Appennino e, discesi nel
territorio del Sannio, assai fertile e da lungo tempo immune da guerre,
poterono disporre di tanta abbondanza di viveri, che non riuscivano ad esaurire
la preda né usandone per i propri bisogni, né compiendo devastazione. Fecero
una scorreria anche nel territorio di Benevento, colonia romana: presero fra
l'altro la città di Venosa, priva di mura e piena di ogni sorta di provviste. I
Romani seguivano costantemente i nemici alle spalle alla distanza di una o due
giornate di cammino, ma rifiutavano di avvicinarsi e venire a battaglia.
Annibale dunque, vedendo che Fabio evitava il combattimento, ma che d'altra
parte, come tutto lasciava vedere, non cedeva completamente il campo, arditamente
mosse verso la pianura di Capua, e precisamente in direzione di Falerno,
convinto che gli sarebbe riuscita una delle due cose, o di costringere i nemici
al combattimento, o di rendere a tutti palese che egli era padrone della
situazione e che i Romani gli cedevano il campo. Se ciò fosse avvenuto, sperava
che le città, atterrite, si sarebbero risolte a disertare. Fino a quel momento,
infatti, benché i Romani fossero stati vinti in due battaglie, nessuna
delle città d'Italia era passata al Cartaginesi, ma pur subendone, alcune,
dolorose conseguenze, si erano conservate fedeli. Da questo si può giudicare di
quanto ammirazione e di quanto rispetto godesse presso gli alleati la
repubblica romana.
91. Annibale dunque si atteneva al piano che
aveva abilmente formulato. Quanto alla pianura intorno a Capua, essa è la più
rinomata d'Italia per la sua fertilità, la sua bellezza, i comodi porti di cui
dispone, al quali approdano quanti vengono in Italia da quasi ogni altra parte
del mondo. In essa si trovano pure le più belle e famose città della penisola.
Sono situate sulla costa le città di Sinuessa, Cuma, Dicearchia, quindi Napoli,
ultima Nocera. Nell'entroterra sono situate Cales e Teano verso nord, Daunia e
Nola verso oriente e mezzogiorno. Proprio al centro della pianura si trovava la
città di Capua, che era allora la piú fiorente di tutte. È comprensibile come
sia formata la leggenda che i mitografi narrano riguardo a questa pianura,
chiamata Flegrea come altre pianure famose: che gli dei cioè se la siano
particolarmente contesa, a causa della sua bellezza e fertilità. Inoltre tale
pianura è particolarmente forte e di difficile accesso: essa è limitata infatti
da una parte dal mare, per lo più da monti alti e ininterrotti, attraverso i
quali dall'entroterra si accede alla pianura solo per tre passi stretti e
aspri, rispettivamente dal Sannio, dal Lazio, dall'Irpinia. I Cartaginesi,
essendosi accampati in questa pianura come in un teatro, volevano sbalordire
tutti con la loro audacia, escluderne i nemici che evitavano la lotta e
apparire incontrastati padroni del territorio.
92. Annibale con questo intento attraversò le
gole del colle detto Eribiano, dalla parte del Sannio e si accampò presso il
fiume Aturno, che divide la pianura Flegrea in due parti su per giù uguali.
Tenne il campo dalla parte rivolta verso Roma, mentre, correndola per
foraggiare, devastava impunemente tutta la pianura. Fabio fu colpito
dall'audacia della mossa nemica, ma tanto più saldamente si attenne al piano
prestabilito. Il suo collega Marco invece e tutti i tribuni e centurioni
dell'esercito, pensando che l'avversario si fosse lasciato sorprendere in
posizione sfavorevole, insistevano perché si sferrasse subito l'attacco verso
la pianura e non si permettesse che così splendido territorio venisse
devastato. Fabio si affrettò a raggiungere la località, fingendo di avere le
stesse tendenze bellicose degli altri, ma quando giunse presso Falerno,
tenendosi sulle alture, mostrò apertamente la sua tattica: procedette cioè
parallelamente al nemico, in modo che i suoi alleati non potessero pensare che
egli abbandonasse il paese, ma non fece discendere le sue truppe nella
pianura, evitando battaglie campali, oltre che per le ragioni suddette, perché
i nemici evidentemente erano di gran lunga superiori nella cavalleria.
Annibale, provocati in questo modo i Romani e
devastata tutta la pianura, raccolse un immenso bottino, quindi si accinse a
levare il campo, desiderando non consumare inutilmente la preda ma metterla al
sicuro in una località nella quale potesse anche porre i suoi quartieri
d'inverno: mirava cosi a procurare all'esercito non solo un momentaneo
benessere, ma abbondanza di viveri per un periodo continuato. Fabio comprese il
suo piano e la sua intenzione di uscire dallo stesso passo per il quale era
entrato nella pianura; visto che la località era stretta e straordinariamente
adatta a una insidia, dispose proprio sul passo circa quattromila uomini, che
esortò a valersi coraggiosamente dell'occasione propizia e della posizione
favorevole, mentre egli stesso con la maggior parte delle sue forze si
accampava su un colle sovrastante la stretta.
93. Quando i Cartaginesi si avvicinarono e si
accamparono nella pianura proprio sotto la catena montuosa, Fabio sperò di
potere almeno privare il nemico della preda senza incontrare resistenza e di
riuscire eventualmente ad approfittare della posizione favorevole per porre
definitivo termine alla guerra. Tali disegni volgeva nella mente, considerando
come e quando avrebbe potuto usufruire dei luoghi e quali truppe e da quale
punto dovessero per prime assalire l'avversario. Ma Annibale mentre il Romano
faceva tali preparativi per il giorno seguente, deducendo dalle circostanze il
piano degli avversari, non diede loro il tempo di attuarlo, ma chiamato Asdrubale,
l'ufficiale addetto al servizi logistici, gli ordinò di far raccogliere al più
presto nel boschi la massima quantità possibile di legname asciutto d'ogni
genere, e avendo scelto da tutta la preda i più robusti tra i buoi da lavoro,
di riunirne circa duemila davanti all'accampamento. Fatto questo, raccolse i
genieri e mostrò loro un'altura situata tra l'accampamento e la gola, per la
quale intendeva compiere la marcia; ordinò di spingervi a forza i buoi, quando
egli ne avesse dato l'ordine, finché avessero raggiunto la cima. Comandò quindi
a tutti di pranzare e di andare a riposare di buon'ora. Non appena fu passata
la terza vigilia, subito fece uscire i genieri e ordinò di legare le fascine
alle corna dei buoi. L'ordine fu presto eseguito perché gli uomini erano
numerosi e allora egli comandò di appiccare il fuoco alle fascine e di spingere
a forza i buoi verso la cima del colle; alle loro spalle fece disporre i
lancieri, con l'incarico di aiutare fino a un certo punto i soldati che
spingevano i buoi; quando gli animali avessero preso l'aire, correndo al loro
fianco essi dovevano farli stare uniti e insieme tenersi in posizione
favorevole e prevenire i nemici nell'occupare l'altura, per essere pronti a
scontrarsi con loro, nel caso che si opponessero presso la cima. Nel frattempo
egli stesso, disposti primi i soldati armati pesantemente, poi la cavalleria,
quindi la preda e infine gli Iberi e i Celti, avanzò verso lo sbocco della
gola.
94. I Romani di guardia presso la gola, visto
che i fuochi si avvicinavano all'altura pensarono che Annibale marciasse
da quella parte: lasciato dunque il valico, accorsero verso la cima. Di mano in
mano che si avvicinavano ai buoi, rimanevano sconcertati da quelle luci e si
immaginavano qualche cosa di più grande e terribile di quanto non avvenisse in
realtà. Gli astati sopraggiunti, dopo una breve scaramuccia, all'avvicinarsi
dei buoi, si separarono dai nemici e rimasero sull'altura, attendendo
ansiosamente l'apparire del giorno, poiché non riuscivano a capire che cosa avvenisse.
Fabio, da una parte non comprendeva che stesse accadendo e, per usare
l'espressione del poeta, sospettava vi fosse un inganno, dall'altra, fedele al
suo piano iniziale, non era affatto dell'opinione di arrischiare una battaglia
decisiva: se ne rimase dunque fermo nell'accampamento in attesa del giorno.
Allora Annibale, poiché ogni cosa si avverava secondo i suoi disegni, fece
passare le sue truppe e la preda per il valico in assoluta sicurezza, mentre i
soldati che erano a guardia della posizione avevano abbandonato i loro posti.
Al sorgere del giorno, visto che i Romani sull'altura erano schierati di fronte
agli astati, inviò alcuni degli Iberi di rinforzo i quali, attaccati i Romani
ne uccisero un migliaio e facilmente liberarono e fecero discendere dai monti i
loro soldati armati alla leggera.
In questo modo dunque Annibale uscì dalla pianura
di Falerno; quindi, ponendo l'accampamento in luoghi sicuri, cominciò a pensare
seriamente a come e dove avrebbe stabilito i suoi quartieri d'inverno: diffuse
cosa grave timore e preoccupazione fra le città e le popolazioni italiche.
Fabio, benché disapprovato da molti perché si era lasciato sfuggire gli
avversari mentre era in posizione così favorevole, non rinunciò al suo piano.
Pochi giorni dopo, costretto a recarsi a Roma per celebrare dei sacrifici,
affidò l'esercito al collega e nell'allontanarsi gli raccomandò insistentemente
di non preoccuparsi tanto di danneggiare il nemico, quanto di non subire egli
stesso qualche rovescio. Ma Marco, non facendo alcun calcolo di siffatti
consigli, mentre ancora egli stava parlando, pensava soltanto come avrebbe
potuto attaccare il nemico e scendere a battaglia decisiva.
95. Tale era la situazione in Italia.
Contemporaneamente agli avvenimenti narrati, Asdrubale, il comandante
preposto alla Spagna, equipaggiate, durante l'inverno, le trenta navi
lasciategli dal fratello e armatene dieci altre, al principio dell'estate salpò
con quaranta navi coperte da Cartagena, avendo affidato ad Amilcare il comando
della flotta. Riunì nello stesso tempo la fanteria distribuita nei quartieri
d'inverno e si mise in marcia, facendo procedere le navi presso la costa e
marciare la fanteria lungo il litorale, con il disegno di accamparsi con le
forze di terra e di mare presso la foce dell'Ebro. Gneo, considerando le mosse
dei Cartaginesi, in un primo tempo pensò di muovere loro incontro per terra e
per mare dall'accampamento invernale. Quando però fu informato della quantità
delle forze nemiche e della vastità dei loro preparativi, rinunciò ad
affrontarli per terra, ma, equipaggiate trentacinque navi e presi dall'esercito
di fanteria gli uomini più adatti come truppa d'imbarco, salpò da Tarragona e
il secondo giorno approdò alla foce dell'Ebro. Presa terra a circa ottanta
stadi di distanza dagli avversari, mandò innanzi in esplorazione due veloci
navi marsigliesi: i Marsigliesi solevano fungere da guide, affrontavano per
primi i pericoli e prestavano ai Romani servigi di ogni sorta. Generosamente,
infatti, più di ogni altro popolo, i Marsigliesi sostennero la causa di Roma,
più volte anche in altre occasioni, ma soprattutto durante la guerra
annibalica. Quando le vedette mandate in esplorazione riferirono che la flotta
cartaginese era ancorata presso la foce del fiume, Gneo parte subito, volendo
attaccare di sorpresa i nemici.
96. Asdrubale, al quale le vedette avevano
preannunciato da tempo l'avvicinarsi degli avversari, fece schierare sul
litorale le forze di fanteria e ordinò agli equipaggi di imbarcarsi sulle navi.
Trovandosi già anche i Romani nelle vicinanze, dato il segnale di attacco,
salpò deciso a un'azione navale. Ingaggiato il combattimento, solo per breve
tempo i Cartaginesi gli contrastarono la vittoria e poco dopo cominciarono a
ripiegare. La presenza delle truppe sulla riva, infatti, non riuscì utile né
accrebbe il loro coraggio di fronte al pericolo, ma piuttosto li danneggiò,
offrendo una sicura speranza di salvezza. Perdute dunque due navi con gli
equipaggi, oltre ai remi e agli uomini di altre quattro, fuggirono, ripiegando
verso terra. Incalzandoli i Romani con molto ardore, spinsero le navi sulla
spiaggia ed essi stessi, discesi dalle imbarcazioni, cercarono scampo presso le
truppe schierate sulla riva. I Romani, avvicinatisi coraggiosamente a terra e
prese a rimorchio le navi che poterono rimettere a galla, salparono,
molto contenti di aver vinto al primo assalto i nemici, di essere superiori per
mare e di essersi impossessati di venticinque navi degli avversari.
In seguito a questo successo le prospettive dei
Romani in Spagna cominciarono a divenire migliori. I Cartaginesi, quando giunse
loro la notizia della sconfitta subita, immediatamente allestirono e inviarono
settanta navi, ritenendo necessario, per ogni eventualità, tenere ben saldo il
dominio del mare. Queste navi dapprima approdarono in Sardegna, quindi mossero
alla volta di Pisa in Italia, dove il comandante era convinto di riunirsi con
Annibale. Informati però che i Romani erano salpati dalla stessa città dì Roma
con centoventi navi quinqueremi per attaccarli, i Cartaginesi ritornarono in
Sardegna e da qui di nuovo a Cartagine. Gneo Servilio con la sua flotta per un
po' insegue i Cartaginesi sperando di raggiungerli, ma, distanziato di molto,
rinunziò al suo tentativo. Dapprima approdò a Lilibeo di Sicilia: quindi salpò
alla volta dell'isola africana di Cercina, e, ricevuto un tributo dagli
abitanti perché non ne devastassero il territorio, si allontanò. Sulla via del
ritorno si impadronì dell'isola di Cossiro e, introdotta una guarnigione nella
cittadina, di nuovo approdò a Lilibeo. Dopo non molto tempo, lasciata quivi la
flotta all'ancora, egli stesso ritornò presso le forze di fanteria.
97. Il senato, informato del successo
riportato da Gneo nella battaglia navale, ritenendo utile, anzi necessario non
trascurare le cose di Iberia, ma incalzare i Cartaginesi e ravvivare la lotta,
allestite venti navi e nominato stratego Publio Scipione, secondo il piano
primitivo lo inviarono in fretta presso il fratello Giico, perché collaborasse
con lui alla condotta della guerra in Spagna. Temevano molto infatti che i
Cartaginesi, qualora fossero riusciti a predominare in quei luoghi e a
disporre di grande abbondanza di viveri e di uomini, facessero sforzi maggiori
per riconquistarsi il dominio del mare e potessero cosi appoggiare la lotta in
Italia, inviando ad Annibale rinforzi di uomini e di mezzi. Annettendo dunque
grande importanza anche a questo settore della lotta, mandarono in
Iberia Publio e le navi. Questi, non appena vi fu pervenuto e si
fu riunito col fratello, rese servigi preziosi agli interessi comuni. I Romani
infatti, che mai prima di allora avevano osato attraversare il fiume Ebro, ma
si erano accontentati dell'amicizia e dell'alleanza delle popolazioni della sua
riva settentrionale, allora varcarono il fiume e per la prima volta
osarono portare la guerra al di là di esso: in quelle circostanze molto
li aiutò anche il caso. Dopo aver diffuso il terrore fra ali Iberi stanziati
presso il passaggio dell'Ebro, raggiunsero Sagunto e si accamparono alla
distanza di circa quaranta stadi dalla città, presso il tempio di Afrodite, in
posizione adatta a difendersi dai nemici e a ricevere i rifornimenti dal mare:
la flotta procedeva di pari passo con loro. Si verificarono allora le
circostanze che narrerò.
98. Quando era partito per la spedizione in
Italia, Annibale si era fatto dare in ostaggio, da tutte le città dell'Iberia
delle quali diffidava, i figli dei cittadini più illustri e li aveva
lasciati a Sagunto, città fortificata e affidata al comando di uomini di
indubbia lealtà. Un certo spagnolo di nome Abilice, a nessuno secondo degli
Iberi per gloria e condizione sociale era in fama di superarli tutti di gran
lunga per devozione e lealtà verso i Cartaginesi. Questi, vista la piega degli
avvenimenti e ritenendo che i Romani offrissero speranze migliori,
concepì il disegno, veramente degno di uno Spagnolo e di un barbaro, di
consegnare loro gli ostaggi delle città iberiche. Convinto cioè che
avrebbe potuto acquistar buona fama presso i Romani se in un momento opportuno
avesse dato un pegno di fede e insieme avesse prestato loro un così utile
servigio, formulò il piano di tradire i Cartaginesi e consegnare gli ostaggi ai
Romani. Poiché Bostaro il capitano dei Cartaginesi, mandato da Asdrubale perché
impedisse al Romani di passare il fiume, non osando far questo, si era ritirato
e accampato fra Sagunto e il mare, Abilice, riconosciutolo uomo senza malizia,
di natura mite e in più fiducioso nel suoi riguardi, venne a parlargli degli
ostaggi, affermando che, avendo i Romani varcato il fiume, i Cartaginesi non
potevano più dominare gli Iberi col terrore, ma che anzi, date le circostanze,
avevano bisogno della benevolenza dei sudditi: poiché ora i Romani erano vicini
e accampati presso Sagunto e la città era in pericolo, se, avendo condotto
fuori gli ostaggi, li avesse restituiti ai loro genitori e alle loro città,
egli avrebbe frustrato gli ambiziosi profitti dei Romani, che miravano appunto
ad accattivarsi il favore per mezzo della restituzione degli ostaggi: avrebbe
inoltre assicurato ai Cartaginesi la benevolenza di tutti gli Spagnoli,
avvantaggiandosi per il futuro e provvedendo alla sicurezza degli ostaggi
stessi. Il merito del beneficio sarebbe aumentato di molto se egli
avesse compiuto personalmente la cosa. Col restituire alle città i giovani, si
sarebbe guadagnato non solo la benevolenza dei genitori, ma di tutti i
cittadini, palesando chiaramente mediante il suo atto la benevolenza e la
generosità dei Cartaginesi verso gli alleati. Lo stesso Bostaro avrebbe
certamente ricevuto gran quantità di doni da coloro al quali avesse restituiti
i figlioli: riavuti infatti inaspettatamente i loro cari, sarebbero andati a
gara nel ricambiare in pari misura l'autore di tanto beneficio. Con questi e
altri argomenti analoghi, persuase Bostaro ad acconsentire alle sue proposte.
99. Per allora dunque Abilice se ne andò, dopo
aver fissato il giorno nel quale sarebbe venuto con le forze necessarie
per scortare i giovanetti. Recatosi poi di notte all'accampamento dei
Romani e abboccatosi con alcuni Spagnoli che militavano ai loro servizi, per
mezzo loro ottenne di essere annesso alla presenza dei generali. Dopo aver
dimostrato con abbondanza di argomenti con quanto entusiasmo gli Iberi
sarebbero passati dalla parte dei Romani, se grazie a loro avessero ottenuto la
restituzione degli ostaggi, si dichiarò disposto a consegnare i fanciulli.
Publio accettò don grande gioia la proposta di Abilice e gli promise ricchi
doni; quello per il momento ritornò al suo campo, dopo aver fissato il giorno,
il momento e il luogo dove avrebbero dovuto attenderlo i Romani incaricati di
ricevere gli ostaggi, Quindi, presi con sé gli amici adatti, venne da Bostaro e
quando da Sagunto gli furono consegnati i giovani, uscito di notte, quasi
volesse agire di nascosto, procedendo lungo l'accampamento nemico, giunse al
luogo prestabilito per l'appuntamento e consegnò tutti gli ostaggi ai
comandanti dei Romani. Publio rese grandi onori ad Abilice e inviò lui stesso
con alcune persone fidate a ricondurre gli ostaggi alle loro patrie. Passando
da una città all'altra e servendosi della restituzione dei fanciulli come prova
evidente della mitezza e generosità dei Romani in confronto alla diffidenza e
crudeltà dei Cartaginesi, e portando inoltre ad esempio il suo mutamento di
condotta, Abilice indusse molti degli Iberi all'amicizia con i Romani. Bostaro
fu ritenuto colpevole di aver consegnato gli ostaggi al nemici più puerilmente
di quanto convenisse alla sua età, e corse per questa ragione grave pericolo di
vita. Per il momento, essendone ormai il tempo, tutti ricondussero le loro
forze agli accampamenti invernali: il caso, offrendo la possibilità di
restituire i fanciulli, concesse ai Romani un'opportunità assai favorevole ai
progetti che avevano in vista. Così dunque stavano le cose in Iberia.
100. Il generale Annibale, per tornare là donde
abbiamo preso le mosse, informato dagli esploratori che di che nel territorio
di Luceria e di Gerunio si trovava grande quantità di frumento e che Gerunio
era località molto adatta per istituirvi un deposito, decise di passare lì
l'inverno: avanzò dunque marciando alle falde del monte Liburno verso i luoghi
suddetti. Giunto a Gerunio, che dista duecento stadi da Luceria, dapprima con
bei discorsi invitò gli abitanti a fare alleanza con lui, offrendo pure
garanzia delle sue promesse, poi, non prestandogli quelli ascolto, si
accinse all'assedio della città. Divenutone ben presto padrone, fece strage
degli abitanti, ma conservò intatte gran parte delle case e le mura, che voleva
usare come depositi di grano per l'inverno. Fatte accampare le sue truppe
dinanzi alla città, rafforzò l'accampamento con una fossa e una palizzata.
Presi tali provvedimenti, mandò due terzi del suo esercito a raccogliere
frumento, con l'ordine che ogni giorno ciascuno portasse la misura imposta agli
incaricati dell'amministrazione dei viveri per ciascun reparto; con il terzo
rimanente dell'esercito rimase fermo per difendere il campo e proteggere con
distaccamenti avanzati le truppe che raccoglievano il grano. Essendo il luogo
per lo più pianeggiante e di facile accesso, i razziatori quasi innumerevoli,
la stagione propizia al raccolto, ogni giorno si accumulava una quantità enorme
di frumento.
101. Marco, ricevuto da Fabio il comando
dell'esercito, in un primo tempo seguì il nemico tenendosi sulle alture, nella
persuasione che, rimanendo nelle posizioni più elevate, una volta o l'altra si
sarebbe scontrato con i Cartaginesi. Quando seppe che Annibale aveva già
occupato con le sue forze Gerunio, che correva il territorio raccogliendo
frumento, e aveva posto un campo trincerato dinanzi alla città, abbandonate le
alture, discese lungo i contraffarti che portavano al piano. Giunto sul colle
che si leva nel territorio di Larino e si chiama Calene, vi pose l'accampamento,
deciso ad attaccare il nemico a ogni costo. Annibale, vedendo che i Romani
si avvicinavano, lasciò che un terzo delle sue truppe continuasse a raccogliere
frumento, prese invece con sé gli altri due terzi e, allontanatosi di sedici
stadi dalla città in direzione dei nemici, si accampò su un poggio, volendo
intimidire gli avversari e nello stesso tempo proteggere le forze intente a
raccogliere il frumento. Fra i due accampamenti era un'altura, situata
in posizione favorevole, a non grande distanza dai quartieri nemici: durante la
notte Annibale mandò circa duemila astati ad occuparla. Marco quando,
sopraggiunto il giorno, li vide, condusse fuori le forze armate alla leggera e
attaccò la collina. Scoppiò una lotta violenta: infine i Romani riuscirono
vincitori e trasferirono allora sul colle tutto l'esercito. Annibale per un po'
di tempo, data la vicinanza dell'accampamento avversario, tenne stretto intorno
a sé il nerbo delle sue truppe, ma col passare dei giorni fu costretto a
distaccare parte delle sue forze per far pascolare il bestiame, parte per
raccogliere frumento; era infatti fermo nel suo piano iniziale di non intaccare
la preda, e di ammassare la massima quantità possibile di frumento, per
disporre durante tutto l'inverno di grande abbondanza di viveri tanto per gli
uomini, quanto per le bestie da soma e i cavalli: riponeva intatti le migliori
speranze nelle sue forze di cavalleria.
102. Marco allora, quando vide che la maggior
parte dei soldati avversari era dispersa per il paese per gli scopi suddetti,
scelto il momento più opportuno del giorno, condusse fuori le sue truppe,
le avvicinò all'accampamento cartaginese, spiegò le forze armate pesantemente
e, distribuiti in gruppi i cavalieri e i soldati armati alla leggera, li lanciò
contro i foraggiatori, con l'ordine di non catturar vivo nessuno. In seguito a
questo, Annibale si trovò in grave difficoltà: non era in grado, infatti, né di
opporsi efficacemente alle forze schierate di fronte, né di correre in aiuto
dei suoi sparsi per la campagna. Quanto al Romani, quelli che erano stati
inviati contro i Cartaginesi intenti a foraggiare, uccisero molti dei nemici
così sparpagliati: quelli schierati di fronte al campo nemico giunsero a tal
punto di disprezzo degli avversari, che cominciarono a strappare la palizzata e
poco mancò che cingessero d'assedio i Cartaginesi. Annibale resistette saldo
pur fra tanta tempesta di mali, respingendo quanti si avvicinavano e a stento
riuscendo a difendere l'accampamento, finché Asdrubale, raccolti gli uomini che
dalla campagna si erano riuniti in numero di circa quattromila, nel campo
presso Gerunio, accorse in suo aiuto. Ripreso allora un po' di coraggio, tentò
una sortita, e schierate le truppe a poca distanza dagli alloggiamenti, a
stento stornò il pericolo imminente. Marco, uccisi molti nemici nell'attacco al
campo, e ancor più avendone distrutti nelle campagne, per il momento si ritirò,
nutrendo vive speranze per il futuro. L'indomani, avendo i Cartaginesi lasciato
l'accampamento, andò ad occupare i loro quartieri. Annibale temendo che i
Romani, sorpreso di notte l'accampamento indifeso presso Gerunio si
impadronissero dei depositi e delle salmerie, decise di tornare indietro e di
porvi di nuovo il suo campo. Dopo d'allora i Cartaginesi usarono maggior prudenza
e cautela nel foraggiare, i Romani, invece, divennero più ardimentosi e
temerari.
103. Quando giunse a Roma, ingrandita rispetto
al vero, la notizia dell'accaduto, tutti ne furono molto lieti, prima di tutto
perché, mentre erano ormai caduti nella più completa disperazione, le
circostanze parevano volgere al meglio, secondariamente perché si vedeva ora
che la precedente inattività e inerzia dell'esercito non derivava da viltà
delle truppe, ma dalla eccessiva prudenza del comandante. Perciò tutti accusavano
Fabio e lo rimproveravano di lasciarsi sfuggire, per viltà, le occasioni
propizie, celebravano invece a tal punto Marco per il successo ottenuto, che
adottarono in quell'occasione un provvedimento mai preso prima: proclamarono
cioè dittatore anche lui, convinti che ben presto egli avrebbe posto termine
alla guerra: si ebbero dunque fatto mai verificatosi in Roma due dittatori per
la stessa campagna. Quando gli fu così manifesto il favore della moltitudine e
seppe che il popolo gli aveva conferito il supremo comando, Marco si sentì
ancor più vivamente indotto ad esporsi a ogni rischio e ad affrontare a
qualunque costo i nemici: anche Fabio tornò presso le sue truppe per nulla
mutato dagli avvenimenti, ma ancor più saldamente fermo nel piano iniziale. Vedendo
che Marco era pieno di boria e lo contraddiceva in tutto e non pensava ad altro
che a venire a battaglia campale, gli offrì l'alternativa di comandare a turno
o, divise le truppe, di servirsi ciascuno delle proprie forze, secondo il
proprio modo di vedere. Marco accettò assai di buon grado di dividere le
truppe, ed allora, spartite le forze, i due generali si accamparono
separatamente alla distanza di circa dodici stadi l'uno dall'altro.
104. Annibale, in parte informato dai
prigionieri in parte osservando gli avvenimenti, si rese conto della contesa
che divideva i due comandanti e dell'impaziente ambizione di Marco. Ritenendo
dunque che quanto accadeva presso i nemici gli potesse riuscire non di danno,
ma anzi molto vantaggioso, tenne d'occhio Marco, sforzandosi di Annientarne
l'ardire e prevenirne le mosse. Fra l'accampamento suo e quello di Marco si
ergeva un colle, che poteva riuscire pericoloso ad entrambi: egli pensò di
impadronirsene e ben sapendo, ammaestrato dal combattimento precedente, che il
nemico sarebbe accorso immediatamente a impedire il suo tentativo, escogitò
questo stratagemma. Tutt'intorno all'altura il terreno era spoglio d'alberi, ma
presentava molte e varie anfrattuosità e avvallamenti: di notte egli inviò nei
luoghi più adatti alle insidie a gruppi di due e trecento, cinquecento
cavalieri e in tutto circa cinquemila soldati di fanteria leggera e di altri
reparti. Perché al mattino non fossero scoperti dagli uomini che uscivano a
foraggiare, all'alba inviò i soldati armati alla leggera ad occupare l'altura.
Marco lieto della circostanza che riteneva propizia, mandò fuori immediatamente
i veliti con l'ordine di attaccare il nemico e contendergli la posizione e
subito dopo inviò la cavalleria. Dopo di questa, uscì egli stesso a capo della
fanteria pesante disposta in file serrate, e ordinò le suo forze su per giù
come aveva fatto la volta precedente.
105. Era appena apparso il giorno: le menti e
gli sguardi di tutti erano intenti alle forze che combattevano sull'altura,
senza il minimo sospetto dell'insidia tesa ai loro danni. Annibale a sua volta
inviava continuamente nuovi rinforzi agli uomini che erano sul colle, e infine
li raggiunse egli stesso con la cavalleria e le truppe: ben presto le
cavallerie entrarono in azione. In seguito a ciò, la fanteria leggera romana,
oppressa dalla moltitudine dei cavalieri, rifugiandosi fra le file della
fanteria pesante, produsse grande scompiglio: quando fu dato il segnale alle
forze che erano in agguato e anche queste apparvero da ogni parte ad aggiungersi
agli assalitori, non solo le truppe armate alla leggera, ma tutto l'esercito
romano si trovò in grave pericolo. Fabio allora, vedendo quanto accadeva e
temendo che i suoi potessero essere completamente distrutti, condusse fuori i
suoi soldati e accorse in aiuto dei pericolanti. Al suo avvicinarsi i Romani
ripresero coraggio, benché già lo schieramento fosse sconvolto e, raccoltisi
intorno alle insegne, tutti uniti si rifugiarono sotto la loro protezione, dopo
aver perduto molti fanti armati alla leggera, e in numero ancora maggiore, i
migliori uomini delle legioni. Annibale, per timore delle legioni che intatte e
in buon ordine erano venute in aiuto ai camerati, rinuncia
all'inseguimento e pose termine alla battaglia. A quanti avevano preso parte al
combattimento, apparve chiaro che la temerarietà di Marco avrebbe rovinato ogni
cosa, mentre, allora come in altre occasioni, la salvezza era dovuta alla
previdenza di Fabio. Anche a Roma del resto fu indiscutibilmente
manifesto quanto la previdenza di un comandante e il suo metodo ragionato e
intelligente differissero dalla temeraria precipitazione e dalla vanagloria di
un avventuriero. I Romani comunque, ammaestrati dall'esperienza, costruito di
nuovo un unico campo, vi riunirono le loro forze e dopo d'allora ubbidirono
agli ordini di Fabio. I Cartaginesi invece scavarono un fossato fra il colle e
il loro accampamento, quindi, costruita una palizzata intorno alla cima del
colle che avevano conquistato e postavi una guarnigione, ripresero ormai
indisturbati i preparativi per l'inverno.
106. Venuta l'epoca dei comizi (216 a. C.), i
Romani elessero consoli Lucio Emilio e Caio Terenzio. Quando questi furono
insediati, i dittatori deposero il comando, mentre i consoli dell'anno
precedente, Gneo Servilio e Marco Regolo, subentrato a Flaminio dopo la sua
morte, nominati proconsoli da Emilio e ricevuto il comando delle forze in
campo, poterono dirigere a loro piacimento le operazioni. Emilio, consultatosi
col senato, arruolò subito il numero di soldati necessario per completare gli
organici delle legioni e li spedì al campo, ordinando insieme esplicitamente a
Gneo di non attaccare a nessun costo una battaglia campale, ma di ingaggiare
con la massima energia e frequenza combattimenti parziali, per esercitare e rendere
coraggiosi i coscritti in vista dei combattimenti decisivi; si credeva, infatti
che le sconfitte subite fino allora fossero state causate soprattutto dal fatto
che i Romani si erano serviti di milizie raccogliticce, arruolate di fresco e
del tutto impreparate. Fu poi inviato in Gallia con una legione il pretore
Lucio Postumio, perché costringesse i Celti che avevano seguito Annibale a
staccarsi da lui. Si provvide anche a far ritornare la flotta che svernava a
Lilibeo, mentre ai generali che si trovavano in Iberia si mandò tutto quanto
potesse loro riuscir necessario. I consoli e il senato si occupavano dunque con
grande diligenza di questi e di tutti gli altri preparativi. Gneo, ricevute le
istruzioni dai consoli, si attenne in ogni particolare alle loro direttive: non
indugerò dunque a scrivere più a lungo di lui. Nulla di importante infatti o
degno di particolare menzione fu compiuto, sia perché così volevano gli ordini
ricevuti, sia a causa delle circostanze; nelle scaramucce e in un certo numero
di combattimenti parziali si distinsero i generali romani che tutto parvero
compiere con valore e intelligenza.
107. I due eserciti rimasero accampati l'uno di
fronte all'altro per tutto l'inverno e la primavera seguente: già la buona
stagione permetteva di vettovagliarsi con i prodotti dell'annata, quando
Annibale mosse con le sue truppe dal campo presso Gerunio. Giudicando
vantaggioso costringere i nemici a combattere a ogni costo, si impadronì della
rocca della città di nome Canne. In questa i Romani avevano raccolto il grano e
gli altri vettovagliamenti dal territorio di Canusio, e da qui li portavano
nell'accampamento di mano in mano che se ne presentava il bisogno. La città
veramente era già stata distrutta in precedenza, ma la conquista da parte dei Cartaginesi
della rocca e delle vettovaglie produsse fra i Romani non piccolo turbamento:
in seguito a quella occupazione, essi si trovarono in difficoltà non solo per i
rifornimenti, ma anche perché la rocca di Canne si trovava in posizione
vantaggiosa rispetto a tutto il territorio circostante. Mandarono dunque subito
messi a Roma a chiedere istruzioni poiché, qualora si fossero avvicinati ai
nemici, non avrebbero potuto evitare la battaglia, mentre il territorio era
devastato e incerti i sentimenti degli alleati. Il senato decise allora che si
combattesse e si attaccassero i Cartaginesi: ordinò pure a Gneo di attendere
ancora ed inviò sul posto i consoli. Gli sguardi di tutti erano fissi su Emilio
e su di lui poggiavano le maggiori speranze, sia per la virtù di cui aveva dato
prova durante tutta la vita, sia perché poco tempo prima per comune
riconoscimento aveva condotto vittoriosamente e con successo la guerra contro
gli Illiri. Si decise di mettere in campo otto legioni, fatto nuovo presso i
Romani: ogni legione comprendeva, oltre agli alleati, circa cinquemila uomini.
I Romani, come abbiamo già avuto occasione di dire precedentemente, sogliono
arruolare quattro legioni: la legione comprende circa quattromila fanti e
duecento cavalieri, senza contare le forze alleate. Nel caso di circostanze
particolarmente gravi, portano gli effettivi a cinquemila fanti e trecento
cavalieri per ogni legione. Le truppe di fanteria degli alleati comprendono un
numero di uomini su per giù pari a quello dei Romani, mentre il numero dei
cavalieri è circa triplo. Quando li mandano sul campo, assegnano a ciascuno die
consoli la metà di tali forze alleate e due legioni. Solitamente combattono la
maggior parte delle guerre per mezzo di un solo console, di due legioni e del
numero di alleati precisato più sopra, e solo raramente usano tutte le loro
forze contemporaneamente per una sola battaglia. Allora però erano così
sbigottiti e ansiosi per il futuro, che decisero di mettere in campo
contemporaneamente non quattro, ma addirittura otto legioni romane.
108. Dopo aver dunque rivolto vive esortazioni
ad Emilio e avergli posto dinanzi agli occhi la gravità delle conseguenze della
battaglia per entrambe le parti, lo accomiatarono con molte raccomandazioni di
scegliere il momento più opportuno per il combattimento decisivo e di
combattere valorosamente e in modo degno della patria. Il console, come giunse
presso l'esercito, riunì le truppe e manifestò la decisione del senato, quindi
rivolse loro la parola e le incitò con gli argomenti adatti alle circostanze e
con emozione veramente sincera. Le sue parole miravano particolarmente a
giustificare le recenti sconfitte, poiché soprattutto in seguito a quelle i
soldati erano abbattuti e bisognosi di incoraggiamenti. Tentò dunque di
dimostrare che non una o due, ma molte giustificazioni si potevano trovare
delle sconfitte subite e dell'esito delle battaglie precedenti, ma che in
quelle circostanze, se si fossero comportati da uomini, nulla poteva impedire
loro di vincere. Prima di allora, infatti, i consoli non avevano mai combattuto
insieme, con tutte le legioni, né avevano disposto di truppe esercitate, bensì
di forze raccogliticce e nuove a ogni pericolo. Quel che era più grave, a tal
punto i loro predecessori ignoravano le condizioni degli avversari, che quasi
senza aver mai veduto il nemico, scendevano in campo a schierarsi per una
battaglia decisiva. I Romani vinti presso il fiume Trebbia erano giunti dalla
Sicilia alla vigilia del combattimento e subito all'alba del giorno successivo
si erano schierati a battaglia: a quanti avevano combattuto in Etruria, non
solo prima, ma neppure durante la battaglia era stato possibile vedere i
nemici, tali erano le condizioni atmosferiche durante il combattimento. Ora,
invece, le circostanze erano del tutto opposte.
109. Prima di tutto egli continuò noi consoli
siamo entrambi presenti e non solo parteciperemo di persona alla battaglia, ma
abbiamo indotto a rimanere e a prender parte alla stessa lotta anche i consoli
dell'anno scorso. Voi inoltre conoscete bene l'armamento, la tattica, l'entità
delle forze nemiche, non solo, ma ormai da due anni combattete con loro quasi
quotidianamente. Se dunque in tutti i particolari le condizioni sono inverse a
quelle delle battaglie precedenti, è naturale che anche l'esito del
combattimento attuale riesca contrario. Sarebbe strano infatti o piuttosto si
potrebbe dire impossibile, che nei combattimento parziali, venendo a lotta pari
contro pari, foste riusciti il più delle volte vincitori, essendo invece scesi
in campo tutti insieme in un numero più che doppio di quello degli avversari,
doveste venire sconfitti. Perciò, o soldati, sono state prese tutte le misure
per assicurarvi la vittoria, manca un'ultima cosa, la vostra buona volontà e il
vostro entusiasmo; riguardo a questi non credo necessario esortarvi più a
lungo. Per coloro, infatti, i quali combattono per mercede a difesa di altri o
che stanno per affrontare una battaglia a favore di popoli vicini in seguito a
un'alleanza per i quali dunque il momento della battaglia è il più pericoloso,
mentre l'esito della guerra ha ben poca importanza sono indispensabili le
esortazioni: ma chi, come voi ora, non affronta il pericolo della battaglia a
favore di altri bensì a difesa di se stesso, della patria, della moglie e dei
figli per il quale quindi le conseguenze della lotta sono molto più gravi del
pericolo del momento, ha bisogno solo che gli si faccia presente lo stato delle
cose, non che gli si rivolgano esortazioni. Chi infatti non vorrebbe vincere a
tutti i costi nel combattimento e, qualora questo non fosse possibile, morire
in battaglia, piuttosto che vivere per vedere la rovina e la distruzione di
quanto gli è più caro? Dunque, o soldati, prescindendo da quanto io dico,
ponendovi dinanzi agli occhi la differenza che corre tra il riuscir vittoriosi
e l'essere vinti e le conseguenze che ne possono derivare, affrontate la
battaglia come se la patria non ponesse ora a repentaglio queste legioni, ma
tutta se stessa. Non ha altre risorse, infatti, cui ricorrere, per superare i nemici,
qualora la presente battaglia le riesca sfavorevole. Su di voi ha fondato tutta
la sua potenza e il suo coraggio, in voi ripone tutte le speranze di salvezza.
Non deludetela in queste speranze, ma dimostrate alla patria la gratitudine
dovuta e rendete evidente a tutti gli uomini che anche le sconfitte precedenti
non furono causate dall'inferiorità dei Romani rispetto ai Cartaginesi come
soldati, ma dalla loro inesperienza e dal volgere stesso delle circostanze.
Detto questo e rivolte loro tali esortazioni, per allora Lucio congedò i
soldati.
110. L'indomani i consoli tolsero il campo e
mossero con le truppe verso la località dove, secondo le loro informazioni, si
trovavano gli avversari. Giunti il secondo giorno in vista dei nemici, si accamparono
alla distanza di circa cinquanta stadi dalle loro posizioni. Lucio dunque,
vedendo che tutti i luoghi all'intorno erano piani e spogli d'alberi, era del
parere che non si dovesse ingaggiare battaglia, poiché i nemici erano superiori
nella cavalleria, ma che fosse più opportuno procedere e attirarli verso una
località dove il peso del combattimento fosse affidato alle forze di fanteria.
Poiché Caio, nella sua inesperienza, era di parere contrario, fra i consoli
cosa fra tutte pericolosissima vi era dissenso e malumore. Secondo l'usanza, i
consoli assumevano il comando un giorno ciascuno: toccando il comando a Caio
per la giornata successiva, egli ordinò di togliere il campo e di avanzare,
volendo avvicinarsi ai nemici, benché Lucio cercasse con tutti gli argomenti di
trattenerlo. Annibale, presi con sé i soldati armati alla leggera e i
cavalieri, si fece innanzi, e attaccatili all'improvviso quando ancora erano in
marcia, ingaggiò il combattimento e provocò fra i Romani non poco scompiglio. I
Romani sostennero tuttavia il primo assalto, opponendo una parte della fanteria
pesante: fatti uscire quindi gli astati e i cavalieri, riuscirono superiori nel
complesso della battaglia, perché i Cartaginesi non disponevano di grande forze
di copertura, mentre con i Romani, mescolati alle forze armate alla leggera,
combattevano anche alcuni manipoli delle legioni. Per allora dunque,
sopraggiunta la notte, i due avversari si separarono: per i Cartaginesi
l'attacco non aveva avuto l'esito sperato. Il giorno successivo Lucio, non
giudicando opportuno combattere, né potendo ancora ritirarsi con l'esercito
senza pericolo, fece accampare due terzi delle sue forze presso il fiume
chiamato Aufìdo, l'unico che attraversi l'Appennino: (è questa la catena
montuosa che segna lo spartiacque fra i fiumi d'Italia che sfociano nel mar
Tirreno e quelli che sfociano nell'Adriatico; varcando con il suo corso
l'Appennino, l'Aufido ha la sorgente nel versante dell'Italia rivolto al
Tirreno, e sbocca invece nell'Adriatico); con la terza parte dei soldati pose
il campo al di là del fiume a levante del guado, alla distanza di circa dieci
stadi dai suoi alloggiamenti e di poco più da quelli degli avversari,
intendendo così proteggere i soldati dell'altro campo che foraggiavano e
minacciare invece i Cartaginesi.
111. Nello stesso tempo Annibale, che vedeva
come la situazione invitasse all'immediato combattimento con i nemici, per
timore che i suoi soldati fossero scoraggiati per la precedente sconfitta,
pensò che le circostanze richiedessero parole di esortazione e fece riunire le
truppe. Quando furono raccolte, le invitò a rivolgere lo sguardo ai luoghi
circostanti e domandò loro qual più grande favore, se ne avessero avuto la
facoltà, avrebbero potuto chiedere agli dei nelle condizioni presenti, che di
venire a battaglia decisiva in siffatta località, essendo di gran lunga
superiori al nemici nella cavalleria. Avendo tutti approvato le sue parole,
data la loro evidenza, così continuò: "Di questo siate soprattutto grati
agli dei; per preparare la nostra vittoria, infatti, essi hanno condotto i
nemici in questa posizione; secondariamente ringraziatene me, che ho costretti
gli avversari ad accettare battaglia - ormai non possono più sfuggire - proprio
su di un terreno evidentemente favorevole a noi. Non mi sembra affatto il caso
di esortarvi ora con molte parole ad essere arditi e coraggiosi di fronte al
pericolo. Quando eravate inesperti della lotta contro i Romani bisognava farlo,
e io spesi a questo scopo molte parole e ricorsi ad esempi: ma ora che in tre
successive battaglie di tanta importanza avete vinto indiscutibilmente i
Romani, quale discorso vi potrebbe dare coraggio in modo più efficace dei fatti
stessi? Mediante le precedenti battaglie avete conquistato le campagne e i beni
che se ne ricavano secondo le mie promesse, né mai una parola fra quante vi ho
dette, apparve menzognera: la lotta attuale verte intorno al possesso delle
città e dei beni in esse contenuti. Se in questa riuscirete vincitori, vi
troverete immediatamente padroni di tutta l'Italia e, liberi dai presenti
travagli, verrete in possesso di tutta la ricchezza dei Romani e vi troverete
signori assoluti del mondo intero. Non occorrono dunque più parole, ma fatti:
se gli dei mi aiuteranno, spero di confermare al più presto coi fatti le mie
promesse". Queste e simili cose egli disse, poi, fra le fervide
acclamazioni delle truppe, lodò il loro entusiasmo e se ne compiacque; quindi
le congedò e subito pose il campo, facendo costruire la trincea lungo la stessa
riva del fiume dove era il campo maggiore dei nemici.
112. L'indomani diede a tutti l'ordine di aver
cura di sé e di prepararsi; il giorno successivo schierò l'esercito lungo il
fiume, ed era evidente la sua impazienza di venire a battaglia. Lucio trovava
sfavorevole il terreno e vedendo che i Cartaginesi sarebbero presto stati
costretti a trasferire gli alloggiamenti per procurarsi i viveri, se ne stava
tranquillo, rinforzando la guardia dei due campi. Annibale, dopo aver aspettato
un poco, poiché nessuno gli si opponeva, ritirò di nuovo nell'accampamento il
resto delle sue forze, inviò invece i Numidi contro i Romani che uscivano dal
campo minore per rifornirsi d'acqua. I Numidi si spinsero proprio fin presso la
trincea e impedivano i rifornimenti. Caio si irritò ancor, più per questo
incidente, mentre i soldati fremevano per desiderio di combattere e
sopportavano malvolentieri gli indugi. Gravosissimo è infatti per tutti gli
uomini il tempo dell'attesa: invece, una volta che si sia stabilito un piano,
bisogna resistere, per quanto appaia duro tutto ciò che si deve sopportare.
Quando a Roma giunse la notizia che i due eserciti erano di fronte e che
quotidianamente avvenivano scontri di avanguardie, tutta la città era sospesa e
piena d'ansia; il popolo era timoroso dell'avvenire, perché già più volte aveva
subito sconfitte, e d'altra parte anticipava con l'immaginazione le conseguenze
di una rotta totale. I responsi degli oracoli correvano sulla bocca di tutti,
ogni tempio, ogni casa era piena di prodigi e segni divini; invocazioni,
sacrifici, suppliche agli dei, preghiere si levavano per tutta la città.
Infatti nei momenti critici i Romani sono scrupolosi nell'accattivarsi gli dei
e gli uomini e nulla giudicano sconveniente od ignobile di quanto compiono in
tali circostanze.
113. Il giorno seguente Gneo assunse il comando
e non appena cominciò ad albeggiare, condusse fuori le sue forze
contemporaneamente dai due accampamenti. Fece attraversare il fiume e schierare
subito dall'altra parte gli uomini dell'accampamento maggiore, poi congiunse
con questi e ordinò nella stessa linea quelli dell'altro in modo che tutta la
fronte fosse rivolta verso mezzogiorno. Schierò quindi i cavalieri romani lungo
il fiume nell'ala destra, di seguito a questi, sulla stessa linea, la fanteria,
disponendo i manipoli più fitti del solito e facendoli molto più profondi che
larghi: oppose all'ala sinistra i cavalieri degli alleati; in avanguardia, a
una certa distanza, schierò le forze armate alla leggera. Compresi gli alleati,
vi erano in tutto ottantamila fanti e poco più di seimila cavalieri. Annibale
contemporaneamente avendo traghettato al di là del fiume i Baleari e gli
astati, li dispose dinanzi all'esercito, condusse poi fuori gli altri
dall'accampamento e, fatta loro attraversare la corrente in due luoghi, li
schierò di fronte ai nemici. Dispose proprio lungo il fiume, sul lato sinistro,
i cavalieri iberici e celti di contro ai cavalieri romani, di seguito a questi
la metà dei fanti libici armati pesantemente, poi gli Iberi e i Celti. Presso
questi pose l'altra metà dei Libici e all'ala destra schierò la cavalleria
numidica. Quando li ebbe disposti tutti su una fila, avanzò con le schiere
centrali degli Iberi e dei Celti e dispose le altre congiunte a queste in modo
preordinato, sì da formare una convessità a forma di mezza luna, e di rendere
meno profondo lo schieramento, volendo che gli Africani formassero nella
battaglia un corpo di riserva e che fossero gli Iberi e i Celti a dare inizio
all'azione.
114. L'armamento dei Libici era romano, poiché
Annibale aveva equipaggiato tutti i suoi soldati con le spoglie raccolte nella
battaglia precedente: gli Iberi e i Celti portavano scudi simili e spade di
forma completamente diversa: la spada iberica infatti non era meno forte nei
colpi di punta che in quelli di taglio, mentre quella gallica non serviva che
di taglio e da una certa distanza. Essi erano disposti a manipoli alterni, i
Celti ignudi, gli Iberi, secondo il patrio costume, vestiti di corte tuniche di
lino orlate di porpora: riuscivano, così, strani e insieme spaventosi a
vedersi. La cavalleria cartaginese assommava a quasi diecimila uomini, mentre
la fanteria non superava di molto i quarantamila uomini, compresi i Celti.
Comandavano l'ala destra dei Romani Emilio, la sinistra Caio: i corpi centrali
Marco e Gneo, consoli dell'anno precedente. Asdrubale comandava l'ala sinistra
dei Cartaginesi, dell'ala destra era capo Annone: nel centro comandava lo
stesso Annibale, insieme al fratello Magone. Essendo lo schieramento romano
rivolto a mezzogiorno, come ho detto più sopra, e quello cartaginese a
settentrione, a nessuna delle due parti recò molestia il sorgere del sole.
115. Quando le avanguardie entrarono in azione,
il combattimento fra le forze armate alla leggera, ebbe, in un primo tempo,
esito pari: non appena però i cavalieri iberi e celti dall'ala sinistra vennero
a contatto con la cavalleria romana, ne seguì una battaglia veramente
barbarica: essi non lottavano infatti, secondo l'usanza, con conversioni e
mutamenti di fronte, ma, una volta entrati nella mischia, smontavano da cavallo
e combattevano avvinghiati corpo a corpo ai nemici. Le forze cartaginesi infine
riuscirono superiori e, benché i Romani combattessero tutti con disperato
coraggio, ne uccisero nella mischia la maggior parte e respinsero i rimanenti
lungo il fiume, menandone strage e colpendo senza pietà; le forze di fanteria
allora, ricevute negli intervalli le milizie leggere, cozzarono le une contro
le altre. Per un po' di tempo le file degli Iberi e dei Celti tennero duro e
resistettero coraggiosamente ai Romani: più tardi però, oppressi dalla massa,
ripiegarono e si ritirarono, rompendo lo schieramento lunato. Le forze dei
Romani, inseguendoli con impeto, spezzarono facilmente la fronte degli
avversari anche perché la schiera dei Celti era poco profonda ai lati e
infittiva dalle ali verso il centro e il luogo della battaglia: le ali e i
centri, poi, non entrarono simultaneamente in azione, ma cominciarono a
combattere i centri. I Celti, disposti a mezzaluna, erano molto avanzati rispetto
alle ali, perché il loro schieramento lunato aveva la convessità rivolta verso
i nemici. I Romani inseguendo questi e accorrendo tutti verso il centro dei
nemici, che cominciava a cedere, si cacciarono tanto innanzi, che da entrambi
le parti i Libici armati pesantemente vennero a trovarsi di fianco a loro: di
essi, quelli che si trovavano all'ala destra, operando una conversione a
sinistra, e facendo impeto da destra, strinsero di fianco i nemici, mentre
quelli che erano a sinistra, ripiegando verso destra, si schierarono sulla
sinistra: la situazione stessa suggeriva la tattica da seguire. Così, secondo
il piano di Annibale, i Romani, nel precipitarsi dietro ai Celti, si trovarono
rinchiusi fra le schiere dei Libici. Questi poi combattevano contro quelli che
li attaccavano di fianco non in formazioni serrate, ma lottando singolarmente o
per manipoli.
116. Lucio, benché fin da principio fosse stato
nell'ala destra e avesse partecipato alla battaglia della cavalleria, tuttavia
sino a quel momento si era salvato. Desiderava però che il suo operato fosse
coerente con quanto aveva detto nell'esortare i suoi; vedendo quindi che la
sorte definitiva della battaglia era affidata alle forze di fanteria, spinto il
cavallo verso il centro dell'intero schieramento, personalmente si scagliò
contro gli avversari e venne a battaglia con loro, mentre nello stesso tempo
esortava e incitava i suoi soldati. Lo stesso fece pure Annibale, che fin da
principio aveva comandato questa parte delle truppe. I Numidi dell'ala destra,
attaccando i cavalieri avversari schierati sul fianco sinistro, non inflissero
né subirono gravi perdite, dato il loro particolare modo di combattere, ma
immobilizzarono i nemici, distraendoli e attaccandoli da ogni parte. Quando
però i soldati di Asdrubale, fatta strage dei cavalieri che erano lungo il
fiume, tranne pochissimi, vennero in aiuto ai Numidi dall'ala sinistra, la
cavalleria alleata dei Romani, prevedendo il loro assalto, ripiegò e
retrocedette. Asdrubale ha fama di aver agito in questa occasione con molta
abilità e prudenza: vedendo infatti che i Numidi erano numerosi, pieni di
ardore e molto temibili per un nemico che già aveva cominciato a ripiegare,
affidò loro il compito di inseguire i fuggiaschi e condusse i suoi squadroni là
dove ardeva la battaglia fra le fanterie, con lo scopo di venire in aiuto ai
Libici. Attaccate dunque alle spalle le legioni romane, rivolgendo successive
puntate contro le varie schiere contemporaneamente in molti luoghi, rinfrancò i
Libici, indebolì, invece, ed avvilì moralmente i Romani. In questo frangente
Lucio Emilio colpito da molte parti, morì in battaglia, dopo aver compiuto più
di ogni altro il suo dovere verso la patria per tutta la sua vita e fino agli
estremi. I Romani, finché poterono combattere, volgendosi da tutti i lati
contro quanti li avevano accerchiati, resistettero: ma, essendo ormai stati
uccisi l'uno sull'altro gli uomini delle file esterne e trovandosi rinchiusi in
breve spazio, infine tutti perirono sul campo, fra gli altri pure Marco e Gneo,
i consoli dell'anno precedente, uomini valorosi, che anche durante quella
battaglia si erano dimostrati degni di Roma. Mentre si svolgeva questo rovinoso
combattimento, i Numidi, inseguendo i cavalieri in fuga, ne uccisero la maggior
parte, e sbalzarono gli altri da cavallo. Alcuni pochi scamparono a Venosa, fra
gli altri il console romano Caio Terenzio, uomo di animo ignobile, che durante
il suo periodo di governo nulla aveva saputo compiere di vantaggioso per la
patria.
117. Tale fu l'esito della battaglia di Canne
fra i Romani e i Cartaginesi, battaglia nella quale sia i vincitori che i vinti
diedero prova di grande valore, come apparve evidente dai fatti. Dei seimila
cavalieri, settanta si rifugiarono con Caio a Venosa, circa trecento alleati si
salvarono alla spicciolata nelle città: dei fanti circa diecimila, che non
avevano partecipato al combattimento, furono presi in armi, sul campo di
battaglia, mentre solo tremila uomini fuggirono nelle città vicine. Tutti gli
altri, circa settantamila, morirono da valorosi; in quell'occasione come
precedentemente la superiorità numerica della cavalleria diede il massimo
contributo alla vittoria dei Cartaginesi. Fu dimostrato ai posteri che è
meglio, in guerra, disporre la metà dei fanti, ma essere decisamente superiori
nella cavalleria, piuttosto che combattere con forze del tutto pari
all'avversario. Dell'esercito di Annibale caddero circa quattromila Celti,
millecinquecento Iberi e Libici, circa duecento cavalieri. I prigionieri romani
erano rimasti fuori dalla battaglia per la ragione che dirò. Lucio aveva
lasciato diecimila fanti presso il suo accampamento, affinché se Annibale,
trascurando il proprio campo, avesse schierato tutte le sue forze,
approfittando del momento della battaglia, essi l'attaccassero e si
impadronissero delle salmerie degli avversari; se invece, in previsione di tale
manovra, Annibale avesse lasciato un presidio sufficiente, la battaglia
decisiva potesse essere combattuta contro minor numero di avversari. La cattura
avvenne in questo modo: Annibale aveva lasciato a difesa dell'accampamento un
corpo di guardia sufficiente; non appena cominciò la battaglia, i Romani,
secondo l'ordine ricevuto, avevano prima circondato poi attaccato le forze
cartaginesi lasciate nell'accampamento. Dapprima queste opposero resistenza:
quando già stavano per venir sopraffatte, Annibale, ormai vittorioso in tutti
gli altri settori, accorso in aiuto dei suoi, volse in fuga i Romani e,
rinchiusili nel loro accampamento, ne uccise duemila e fece prigionieri tutti i
rimanenti. Similmente i Numidi, espugnati i castelli della regione che avevano
dato loro asilo, ricondussero con sé quanti vi avevano cercato scampo, e cioè
circa duemila dei cavalieri che erano stati volti in fuga.
118. Conclusasi la battaglia nel modo descritto,
ne seguirono per entrambe le parti le conseguenze previste. I Cartaginesi,
grazie al successo riportato, subito si trovarono padroni di quasi tutto il
resto della costa: i Tarentini infatti immediatamente si arresero, gli abitanti
di Argirippa e alcuni dei Campani invitarono Annibale, tutti gli altri già
rivolgevano i loro sguardi ai cartaginesi: questi nutrivano grandi speranze di
potersi impadronire d'assalto della stessa Roma. I Romani a causa della
sconfitta disperarono di poter conservare il potere sull'Italia e si trovarono
in grave timore e pericolo per la loro stessa incolumità e le sedi patrie,
poiché si aspettavano che da un momento all'altro sarebbe sopravvenuto
Annibale. Inoltre, come se la sorte volesse infierire ed accrescere in tutti i
modi le sventure dei Romani, accadde pochi giorni dopo che, mentre il terrore
dominava nella città, anche il pretore inviato in Gallia cadesse
inaspettatamente in un'insidia e fosse del tutto annientato con le sue truppe
dai Celti. Tuttavia il senato nulla tralasciò di quanto era possibile, ma
rivolse esortazioni alla popolazione, provvide alla difesa della città,
virilmente prese ogni provvedimento adatto alle circostanze. Ciò apparve
evidente da quanto seguì: benché infatti i Romani fossero stati allora
incontestabilmente battuti e superati militarmente, grazie ai pregi della loro
costituzione e alla saggezza dei loro piani, non solo ripresero il potere
sull'Italia, vincendo poi i Cartaginesi, ma si impadronirono poco tempo dopo di
tutta la terra abitata. Quanto a noi, con tali avvenimenti termineremo questo
libro, avendo esposto le vicende dell'Iberia e dell'Italia comprese entro la
centoquarantesima olimpiade (fra il 220 e il 216 a.C.): quando, raccontate le
vicende della Grecia durante la stessa Olimpiade, avremo completato la storia
di tale periodo, ci fermeremo a trattare minutamente, come ci siamo proposti,
della costituzione romana, ritenendo che l'argomento non solo sia conveniente
alla natura della nostra opera storica, ma possa anche riuscire utile agli
uomini di scienza e di azione, che vogliono creare o modificare altre
costituzioni.
Estratti Libro VI
27. Per porre il campo i Romani seguono questo
procedimento: una volta scelto il luogo dell'accampamento, alla tenda del
console (praetorium) viene assegnato il punto più adatto per sorvegliare gli
avvenimenti e trasmettere gli ordini. Fissato per mezzo di una insegna il punto
dove deve venire innalzata la tenda del console, viene delimitata tutto intorno
a questa un'area quadrangolare, in modo che ciascuno dei lati disti
dall'insegna cento piedi e che l'area totale sia di quattro pletri. Lungo il
lato di questo quadrato che appare in posizione più opportuna per i
rifornimenti d'acqua e di foraggio, si accampa la legione romana nell'ordine
che ora esporrò. In ogni legione, come già ho detto, si trovano sei tribuni,
ciascuno dei due consoli ha al suo comando due legioni romane; ne segue che con
ogni console militano sempre dodici tribuni. Le tende di questi vengono
disposte lungo una linea diritta parallela al lato del quadrato scelto
precedentemente, alla distanza di cinquanta piedi da esso, in modo che vi sia
lo spazio per i cavalli, le bestie da soma e gli altri bagagli dei tribuni.
Queste tende vengono disposte col lato posteriore rivolto verso la tenda del
console, cioè con la fronte verso il lato esterno che chiamerò d'ora in poi
fronte dell'accampamento. Le tende dei tribuni hanno uguale distanza l'una
dall'altra e sono disposte su una linea che si estende lungo lo spazio occupato
da tutte le legioni romane.
28. Davanti alle tende dei tribuni viene
misurato uno spazio di cento piedi; questo viene delimitato da una retta
parallela alle tende dei tribuni e lungo questa si costruiscono le tende dei
legionari procedendo come ora dirò. La retta suddetta si divide in due parti
uguali e lungo la perpendicolare che ha origine nel punto di divisione, si
dispongono le tende dei cavalieri a cinquanta passi le une dalle altre, di
faccia tra loro e alla stessa distanza dalla perpendicolare. La disposizione delle
tende è simile per la cavalleria e per la fanteria; lo spazio occupato da un
manipolo e da uno squadrone è quadrangolare. L'entrata è rivolta verso le vie,
il lato prospiciente ad esse ha una lunghezza fissa di cento piedi e per lo più
(fatta eccezione per l'accampamento degli alleati) si cerca di fare uguale
anche la larghezza. Quando le legioni sono più numerose, aumentano in
proporzione la lunghezza e la larghezza.
29. Gli alloggiamenti dei cavalieri, che hanno
inizio nel punto centrale della linea formata dalle tende dei tribuni,
costituiscono un rettangolo (striga) perpendicolare alla linea suddetta e alla
via davanti alle tende stesse (via principalis). Le vie hanno tutte la stessa
lunghezza del rettangolo, di modo che sui due lati risultano accampati da una
parte i manipoli, dall'altra gli squadroni. Alle spalle dei cavalieri vengono
disposti nello stesso ordine i triari di entrambe le legioni, una compagnia per
ogni squadrone; gli alloggiamenti sono contigui gli uni agli altri in modo che
le tende dei triari sono di fronte a quelle dei cavalieri; ogni manipolo occupa
in profondità metà dello spazio occupato in lunghezza, perché il numero dei
triari corrisponde per lo più alla metà di quello degli uomini delle altre
formazioni. Benché gli uomini siano in numero inferiore, la lunghezza delle
varie parti dell'accampamento rimane uguale, perché ne varia la profondità.
Alla distanza di cinquanta piedi da questi, di fronte ai triari, sono accampati
i principi; anche le loro tende hanno la fronte sulla via ed essi formano altre
due strige che hanno origine dalla stessa retta, si trovano come le tende dei
cavalieri alla distanza di cento piedi dinanzi alle tende dei tribuni e hanno
termine sul lato dello steccato contrapposto alle tende dei tribuni. Dopo i principi,
a contatto con questi, ma con le tende in direzione opposta, stanno accampati
gli astati. Poiché ogni corpo secondo la distribuzione tradizionale comprende
dieci manipoli, le strige che costituiscono l'accampamento hanno tutte la
stessa lunghezza come pure le vie che le dividono, giungendo fino al lato
frontale del campo; presso questo si trovano le tende dell'ultimo manipolo.
30. Alla distanza di cinquanta piedi dagli
astati e di fronte a questi, sono gli alloggiamenti dei cavalieri alleati
disposti in modo da cominciare e terminare sulla stessa linea degli altri. Il
numero dei fanti alleati, come ho detto sopra, è uguale a quello dei Romani, se
si tolgono gli extraordinarii (1), quello dei cavalieri è doppio, tolto però
anche da questi un terzo per gli extraordinarii. Perciò agli alleati viene
assegnato uno spazio di profondità proporzionale al loro numero in modo che la
lunghezza del loro campo risulti uguale a quella dell'accampamento dei Romani.
Vengono tracciate tutte e cinque le strade (2) e i manipoli dei fanti alleati
vengono disposti di fronte ai cavalieri, su una profondità variabile secondo il
loro numero, rivolti verso lo steccato e ai due lati esterni del campo. I
centurioni occupano le tende estreme di ciascun manipolo. Disponendo le tende
nel modo suddetto ai due lati del pretorio, viene lasciato uno spazio di
cinquanta piedi tra il quinto e il sesto squadrone e allo stesso modo tra il
quinto e il sesto manipolo di fanteria, in modo che ne risulta un'altra via in
mezzo alle legioni, perpendicolare ai quartieri e parallela alle tende dei
tribuni; questa via si chiama quintana perché si trova lungo le tende
della quinta squadra.
31. Lo spazio lasciato libero dietro le tende
dei tribuni ai due lati della tenda del console è riservato al forum da
una parte, dall'altra al questore e agli approvvigionamenti. Dietro l'ultima
tenda dei tribuni, da entrambe le parti e disposti ad angolo retto con le tende
stesse, sono gli alloggiamenti dei cavalieri scelti extraordinarii e di
alcuni volontari arruolatisi al seguito dei consoli; essi sono disposti lungo i
due lati dello steccato laterale, rivolti in parte verso i magazzini del
questore, in parte verso il foro. Queste truppe sono accampate vicino al praetorium
e sempre, durante le marce e in ogni altra occasione sono al servizio del
console e del questore. Di fronte ad esse, rivolti verso lo steccato, sono
accampati i fanti, che prestano gli stessi servizi dei suddetti cavalieri.
Dietro le loro tende viene piazzata una via larga cento piedi parallela alle
tende dei tribuni, ma situata dall'altra parte dello spiazzo, che si estende
per tutta la lunghezza del campo. Lungo la parte superiore di essa sono
accampati i cavalieri scelti alleati, le tende dei quali sono rivolte verso il
foro, il pretorio e il questorio. Nel mezzo degli accampamenti di questi
cavalieri e di fronte al pretorio viene lasciato un passaggio di cinquanta
piedi, perpendicolare alla via di cui si è detto, che conduce al lato
posteriore dell'accampamento. Di fronte ai cavalieri sono disposti infine i
fanti scelti alleati, rivolti allo steccato cioè al lato posteriore
dell'accampamento. Lo spazio che rimane vuoto ai due lati delle truppe scelte (vacuum)
è riservato agli stranieri e agli alleati che arrivino eventualmente
all'improvviso. L'insieme del campo così costruito ha la forma di un quadrato;
la divisione in quartieri e la disposizione generale lo rendono simile a una
città. Su tutti i lati lo steccato dista dalle tende duecento piedi e questo
spazio è utilissimo per molti scopi. Grazie ad esso infatti i soldati possono
comodamente entrare e uscire, poiché dai loro quartieri si dirigono in questo
spazio vuoto, e non si scontrano e calpestano a vicenda, affollandosi tutti in
una sola via; di notte nello stesso spazio vengono custoditi senza pericolo sia
il bestiame catturato sia le prede sottratte ai nemici. Soprattutto infine
durante gli assalti notturni i soldati non vengono raggiunti che in
piccolissimo numero dal fuoco e dalle frecce, di modo che questi assalti e per
la larghezza dello spazio vuoto e per la disposizione delle tende risultano per
lo più vani.
32. Essendo noto il numero dei fanti e dei
cavalieri tanto nel caso che le legioni siano di quattromila uomini, quanto in
quello in cui siano di cinquemila, e così pure essendo noti la larghezza, la
lunghezza e il numero dei manipoli e infine l'estensione delle strade, delle
piazze e di ogni altro spazio vuoto, è facile calcolare l'area e il perimetro
dell'accampamento. Se il numero degli alleati, sia di quelli che partecipano dall'inizio
a una spedizione, sia di quelli che si aggiungono durante la campagna, è
maggiore del solito, a quelli che sopraggiungono all'improvviso, oltre allo
spazio loro riservato, si assegna quello intorno al pretorio, al foro e al
questorio riducendo questi all'estensione strettamente indispensabile. Se poi
gli alleati che partecipano fin da principio alla spedizione sono in numero
particolarmente elevato, viene loro assegnato un quartiere ai due lati delle
legioni romane, oltre allo spazio normalmente loro riservato, presso i due lati
del campo. Quando tutte e quattro le legioni e i due consoli sono uniti in un
solo accampamento, dobbiamo immaginare semplicemente due campi costruiti come
ho detto sopra, disposti l'uno di fronte all'altro, in modo che si trovano
contigui gli accampamenti delle truppe scelte di ciascuna legione, che abbiamo
detto essere disposte lungo il lato posteriore di ogni accampamento; la forma
del campo risulta rettangolare, l'area doppia della precedente, il perimetro
una volta e mezzo. Quando i due consoli sono accampati insieme, usano sempre un
accampamento unico; quando sono accampati separatamente tutto il resto è
uguale, ma il foro, il questorio e il pretorio vengono posti nello spazio
intermedio fra le due legioni.