La battaglia di Canne

by Ing. Giuseppe De Marco

Le fonti letterarie e storiche

PLUTARCO

VITE PARALLELE - FABIO MASSIMO

BIBLIOGRAFIA: PLUTARCO - VITE PARALLELE - Pericle e Fabio Massimo

Traduzione  e note di Anna Santoni

R.C.S. Rizzoli Libri S.p.A. - Milano - "I classici della BUR" - Prima edizione gennaio 1991

Estratti

14. In seguito Fabio depose la carica e furono di nuovo eletti i consoli. I primi due consoli nominati si attennero alla tattica di guerra che il dittatore aveva disposto, evitando il combattimento in campo aperto contro Annibale, recando invece aiuti agli alleati e impedendo le defezioni. Quando però fu eletto console Terenzio Varrone, uomo di oscuri natali, ma la cui vita era nota a tutti per il modo con cui ricercava il favore del popolo e per la precipitazione nell'agire, subito fu chiaro che per inesperienza e presunzione avrebbe giocato l'intera posta in un colpo solo. Infatti nelle pubbliche assemblee andava gridando che la guerra non sarebbe mai finita fino a quando la repubblica si fosse servita di generali come Fabio; invece lui, Varrone, l'avrebbe conclusa vittoriosamente il giorno stesso in cui per la prima volta avesse visto i nemici. E intanto che faceva questi discorsi arruolava e raccoglieva tante truppe quante i Romani non avevano mai impiegato in nessun'altra guerra: furono radunati per lo scontro ottantottomila uomini. Grande era l'apprensione di Fabio e di quanti fra i Romani avevano senno, i quali vedevano che, in caso di sconfitta, la città non avrebbe avuto più la possibilità di riprendersi se avesse perduto tanti soldati nel fiore degli anni. Perciò Fabio cercò di far leva sul collega di Terenzio, Paolo Emilio, che era uomo esperto di cose di guerra ma poco amato dal popolo e timoroso della massa in seguito a un'ammenda che gli era stata inflitta. Dunque Fabio incoraggiò Paolo Emilio a opporsi alla folle temerarietà del collega, facendogli presente che per difendere la patria avrebbe dovuto combattere non meno contro Terenzio che contro Annibale; erano infatti entrambi bramosi di combattere, l'uno perché non si rendeva conto della sua vera forza, l'altro perché era consapevole della propria debolezza. "Io, o Paolo," gli disse "ho più diritto di Terenzio a che mi si presti fede trattandosi di Annibale, e ti assicuro che, se durante quest'anno nessuno gli darà battaglia, o egli perirà rimanendo in Italia o dovrà andarsene in fuga; perfino ora che apparentemente vince e spadroneggia, nessuno dei suoi nemici è passato dalla sua parte, e delle milizie che ha portate con sé dalla patria non gliene resta neppure un terzo". Si narra che a questo discorso Paolo abbia risposto come segue: "Se esamino, o Fabio, la mia posizione, concludo che per me sarebbe meglio cadere sotto i colpi delle lance nemiche che una seconda volta sotto il voto dei miei concittadini. Ma dal momento che la situazione della repubblica è così grave io mi sforzerò di apparire un buon generale a te piuttosto che a tutti gli altri che cercano di trascinarmi nella direzione opposta". Con queste intenzioni Paolo Emilio partì per il fronte.

15. Ma Terenzio, dopo aver insistito affinché i due consoli tenessero il comando a giorni alterni, si accampò di fronte ad Annibale lungo il fiume Aufido, presso la città chiamata Canne,1  e sul far del giorno diede il segnale di battaglia - esso consiste in una tunica di porpora che viene spiegata sopra la tenda del generale-, così che da principio i Cartaginesi rimasero turbati constatando l'audacia del comandante romano e il grande numero dei combattenti, in confronto dei quali essi non erano nemmeno la metà; ma Annibale, dopo aver comandato ai suoi di prendere le armi, a cavallo con pochi uomini a suo seguito, salì su un piccolo poggio per osservare i nemici che già stavano prendendo i loro posti nelle file. Uno dei suoi compagni, un uomo di nome Giscone, del suo stesso rango, avendo esclamato che il numero dei nemici gli sembrava straordinario, corrugando la fronte Annibale ribatté: "Ti è sfuggita un'altra cosa, o Giscone, ancor più straordinaria di codesta". "Quale?" domandò Giscone. "Che pur essendo così tanti uomini," rispose il generale, "nessuno di loro si chiama Giscone." Questo motto di spirito inaspettato li fece ridere tutti ed essi, scendendo dal poggio, lo riferirono a quelli che a mano a mano incontravano, così che molti ne risero di cuore e nemmeno quelli della scorta di Annibale poterono trattenere la loro ilarità. La vista di tanta allegria infuse coraggio ai Cartaginesi i quali pensarono che, se il loro generale rideva e scherzava così nell' imminenza del pericolo, era segno evidente che lo disprezzava profondamente.

1 Nota n. 79 di Anna Santoni: La localizzazione precisa del municipio di Canne è incerta: probabilmente nelle vicinanze della moderna Canosa, sulle rive dell'Ofanto.

16. In quella battaglia Annibale si servì di due accorgimenti strategici. Il Primo fu di scegliere il luogo dello scontro facendo in modo che i suoi soldati avessero alle spalle il vento, che si era scatenato simile a un turbine infocato e, sollevando dalla pianura piatta e sabbiosa un acre polverone al di sopra dello schieramento cartaginese, lo spingeva contro i Romani e li colpiva in pieno viso costringendoli a voltarsi e a scompaginare le loro file. Il secondo accorgimento riguardò il modo di disporre le truppe: infatti Annibale schierò alle ali estreme quelle più forti e combattive, mentre formò il centro con i più fiacchi servendosene come di un cuneo molto sporgente rispetto al resto dello schieramento. Ai più forti, ai lati, diede l'ordine seguente: quando i Romani, sfondato il fronte avversario e portatisi contro il punto di maggior cedimento, si fossero trovati ben all'interno dello schieramento nemico, visto che i soldati che occupavano la posizione centrale avrebbero ceduto e lasciato uno spazio vuoto, essi avrebbero dovuto, ripiegando in fretta da una parte e dall'altra, assalirli ai fianchi e accerchiarli, chiudendoli alle spalle. A quanto consta, fu proprio questa manovra a causare il massimo della strage. Infatti, appena il centro ebbe ceduto e fatto posto ai Romani incalzanti, lo schieramento di Annibale mutò forma e da rettilineo che era si trasformò in una mezza luna; dopo di che i comandanti delle truppe scelte, facendo piegare rapidamente i loro uomini, gli uni a sinistra, e gli altri a destra, si scagliarono sui Romani lungo i fianchi e, presili in mezzo, li massacrarono tutti quanti, salvo pochi che avevano fatto in tempo a sottrarsi all'accerchiamento. Si racconta che anche alla cavalleria romana capitò uno strano incidente: il cavallo di Paolo, a quanto pare ferito, disarcionò il suo cavaliere, e quelli che gli stavano intorno da ogni parte smontarono per portare aiuto, a piedi, al loro console; gli altri cavalieri, avendo visto ciò e pensando che fosse stato dato un ordine generale, scesero tutti quanti da cavallo e si impegnarono col nemico appiedati. Come se ne accorse, Annibale esclamò: "Questo mi riesce ancora più gradito che se me li avessero consegnati legati mani e piedi!". Ma tutti questi episodi sono già stati narrati da quanti hanno descritto per esteso questa battaglia. Quanto ai due consoli, Varrone, seguito da pochi, fuggì a cavallo nella città di Venosa, mentre Paolo, travolto dai profondi frutti di quella rotta, il corpo coperto da molti dardi conficcati nelle ferite e l'animo accasciato da tanto dolore, si mise a sedere su un masso, in attesa che qualcuno dei nemici gli desse il colpo di grazia. Non molti lo notarono, per via del sangue che abbondante gli imbrattava il capo e il volto, ma persino amici e servi gli passarono accanto senza riconoscerlo. Solo il giovane patrizio Cornelio Lentulo lo vide, lo riconobbe e, sceso di sella, gli condusse vicino il suo cavallo e lo invitò a servirsene e a mettersi in salvo per il bene dei cittadini, che allora più che mai avevano bisogno di un buon generale. Ma quello rifiutò l'offerta e costrinse il giovane, piangente, a rimontare a cavallo; dopo di che gli strinse la mano e alzandosi disse: "O Lentulo, riferisci a Fabio Massimo e siine tu stesso testimone, che Paolo Emilio ha mantenuto fede sino alla fine ai propri propositi e non è venuto meno a nessuna delle promesse che gli aveva fatte, ma fu vinto prima da Varrone e poi da Annibale". Dopo avergli affidato questo messaggio, Paolo Emilio congedò Lentulo e, gettatosi nel mezzo della carneficina, morì. Si dice che nella battaglia caddero cinquantamila Romani, quattromila furono fatti prigionieri e, dopo lo scontro, quelli rimasti nei due accampamenti, non meno di diecimila furono catturati.

17. Dopo un tale successo gli amici esortarono Annibale ad assecondare la buona fortuna e a piombare su Roma alle calcagna dei nemici in fuga; così facendo il quinto giorno dopo la vittoria egli avrebbe certamente cenato in Campidoglio.