La battaglia di Canne

by Ing. Giuseppe De Marco

Le fonti letterarie e storiche

TITO LIVIO (TITI LIVI)

STORIA DI ROMA (AB URBE CONDITA)

Estratti del Libro XXII

BIBLIOGRAFIA

STORIA DI ROMA - VERSIONE DI GUIDO VITALI

ZANICHELLI editore BOLOGNA - Tipografia BABINA - S Lazzaro di Savena (BO) - Luglio 1985

 

CAP. XXXIV - CANDIDATURA DI TERENZIO VARRONE

Ai consoli fu prorogato il comando per un anno. Dai Padri furono creati interré Gaio Claudio Centone fìglio di Appio, e poi Publio Cornelio Asina. Durante l'interregno di questo si tennero i comizii tra grande lotta dei patrizii e dei plebei. Il popolo si sforzava per elevare al consolato Caio Terenzio Varrone, uomo della sua classe divenuto grato alla plebe col perseguitare i principali cittadini e con arti demagogiche, e fatto glorioso dal discredito altrui quando aveva scosso la potenza e l'autorità dittatoria di Quinto Fabio; si opponevano con sommo sforzo i patrizii perché costoro non si avvezzassero, con l'osteggiarli, ad agguagliarsi a loro. Conciliava favore al candidato di quelli, sfruttando la loro animosità, Quinto Bebio Erennio tribuno della plebe e congiunto di Caio Terenzio, accusando non il solo Senato ma anche gli àuguri di aver impedito al dittatore di condurre a termine i comizii: i nobili, egli diceva, da tanti anni volevano la guerra e avevano tirato Annibale in Italia; essi pur potendo mettervi fine, la traevano ad arte in lungo. Che si potesse combattere con tutte e quattro le legioni, era apparso da ciò, che Marco Minucio in assenza di Fabio aveva felicemente combattuto, erano state esposte alla strage del nemico due legioni, e poi erano state sottratte di là affinché fosse chiamato padre e patrono colui il quale prima che d'esser vinti, aveva tolto ai Romani di vincere. E i consoli poi con la stessa tattica fabiana, pur potendo dare battaglia decisiva, traevano la guerra in lungo. Questo patto avevano stretto i nobili tra loro, né la guerra sarebbe finita finché non fosse nominato console uno della plebe, cioè un uomo nuovo; i plebei divenuti nobili, infatti, erano ormai iniziati agli stessi misteri, e, da quando avevan cessato d'essere disdegnati dai patrizii, avevano incominciato a disdegnare la plebe. Chi non vedeva che si era voluto e fatto in modo da creare l'interregno perché i patrizii divenissero arbitri dei comizii? La stessa cosa avevano voluta i consoli col loro trattenersi al campo; e si era poi a forza ottenuto, dopo che loro malgrado si era proceduto alla creazione d'un dittatore per i comizii, che gli àuguri dichiarassero irregolare l'elezione del dittatore stesso. I patrizii avevano dunque l'interregno; uno dei due posti consolari spettava indubbiamente alla plebe, e il popolo libero se lo sarebbe riserbato, e lo avrebbe conferito a colui che volesse rapidamente vincere anziché lungamente tenere il comando.

 

CAP. XXXV - TERENZIO VARRONE E EMILIO PAOLO CONSOLI

Fu infiammata da questi discorsi la plebe; e, mentre al consolato aspiravano i tre patrizii Publío Cornelio Merenda, Lucio Manlio Volsone, Marco Emilio Lepido, e i due nobili oriundi plebei Caio Atilio Serrano e Quinto Elio Peto, dei quali uno era pontefice e l'altro àugure, fu eletto console il solo Caio Terenzio, sì ch'egli avesse i comizii in sua. mano per l'elezione del collega. I nobili allora, avendo constatato che i competitori di lui si erano mostrati deboli, spinsero a chiedere il consolato Lucio Emilio Paolo, già console con Marco Livio e a stento scampato alla condanna da cui era stato colpito il collega, ed ostilissimo alla plebe; il quale molto e lungamente ricusò. Egli, nei comizii del giorno seguente, essendosi ritirati tutti quelli che avevano gareggiato con Varrone, fu dato al console più come avversario che come collega.

Si tennero poi i comizii per l'elezione dei pretori; furono eletti Marco Pomponio Matone e Publio Furio Filo; a questo toccò in sorte l'amministrazione della giustizia tra i cittadini, a Pomponio quella tra cittadini romani e forestieri. Si aggiunsero due pretori, Marco Claudio Marcello per la Sicilia, Lucio Postumio Albino per la Gallia. Tutti furono eletti in loro assenza; a nessuno di essi, fuorché al console Terenzio, fu data carica che non avesse già esercitata; si lasciarono così da parte alquanti valenti e animosi cittadini, giacché in siffatta congiuntura non parve opportuno affidare ad alcuno per la prima volta una magistratura.

 

CAP. XXXVI - AUMENTO DELLE FORZE ARMATE

E si accrebbero anche gli eserciti. Quante però fossero le forze di fanteria e di cavalleria aggiunte, si diversa è l'opinione dei varii autori che a stento io mi induco ad affermare qualche cosa di certo. Affermano alcuni che per reintegrare le perdite si arruolarono dieci mila nuovi soldati; altri parlano di quattro legioni nuove, per potere con otto condurre la guerra; e si dice pure che furono accresciute di forze le legioni, sì di fanti come di cavalieri, aggiungendo a ciascuna mille fanti e cento cavalieri, sì che risultassero di cinquemila fanti e di trecento cavalieri, e che i socii dessero un numero doppio di cavalieri ed egual numero di fanti; scrivono alcuni autori che, quando si combatté a Canne, nel campo romano, erano ottantasette mila e duecento armati. E’ ammissibile, infatti, che la guerra si organizzasse allora con sforzo e con alacrità maggiori che negli anni precedenti, avendo il dittatore dato occasione a sperare che si potesse aver ragione del nemico.

Ma, prima che le nuove legioni partissero da Roma, furono incaricati i decèmviri di trar fuori e di consultare i Libri, a cagione di nuovi prodigi che avevano sbigottito le genti; si era infatti affermato che contemporaneamente a Roma su 1'Aventino e ad Aricia eran piovute pietre, e che nella Sabina dalle statue, in Cere da una fonte termale era sgorgato sangue; e ciò tanto più sbigottiva in quanto era avvenuto più volte. E su la via Fornicata, ch'era pregio il Campo Marzio parecchi erano stati colpiti dal fulmine e uccisi. I prodigi furono espiati secondo i Libri. Ambasciatori venuti da Pesto portarono a Roma coppe d'oro. Come ai Napolitani, fu lor rese grazie; l'oro non fu accettato.

 

CAP. XXXVII - OFFERTE DI GERONE RE DI SIRACUSA

In quei giorni stessi approdò a Ostia una flotta spedita da Gerone con gran carico di vettovaglie. Gli ambasciatori, ammessi in Senato, dichiararono che il re Gerone si era tanto afflitto per la notizia dell'eccidio del console Caio Flaminio e dell'esercito che nessuna strage sua propria e del suo regno avrebbe potuto maggiormente commuoverlo. Per ciò, sebbene ben sapesse che la grandezza del popolo romano era quasi più maravigliosa nella cattiva che nella buona fortuna, tuttavia aveva mandato tutto ciò che i buoni e fedeli alleati sogliono offrire come contributo per le guerre; e pregava insistentemente i Padri Coscritti di non rifiutarne l'accoglimento. Prima di tutto, come augurio, portavano una Vittoria d'oro del peso di duecentoventi libbre: l'accettassero e la tenessero e la conservassero come cosa propria. Avevano anche portato trecento mila moggia di grano e duecento mila di orzo perché non venissero meno le vettovaglie, e ne porterebbero quanto altro ne occorresse, nel luogo dove fosse loro comandato. Sapeva il re che il popolo romano non si valeva se non di fanteria e di cavalleria romana e latina; però negli accampamenti romani aveva veduto anche truppe leggiere ausiliarie forestiere; per ciò mandava mille arcieri e frombolieri, milizie atte a combattere i Baleari, i Mauri e altre genti use alle armi da getto. Ai doni aggiungeva un suggerimento: che il pretore a cui fosse toccata la provincia della Sicilia passasse con la flotta in Africa, sì che il nemico avesse la guerra in casa, e gli si desse minor agio di spedire soccorsi ad Annibale.

Dal Senato fu risposto al re: Gerone era ottimo uomo ed eccellente alleato, e fin dal tempo ch'era diventato amico del popolo romano aveva sempre rigorosamente mantenuta la fede, e in ogni occasione e in ogni luogo aveva con munificenza aiutato i romani interessi. Ciò, com'era doveroso, riusciva gratissimo al popolo romano. Il popolo romano, pur aggradendo l’offerta, non aveva accettato l'oro che anche da altre città era stato recato; accettavano la Vittoria e l'augurio, e avrebbero dato e dedicato come sede alla Dea il Campidoglio, cioè il tempio di Giove ottimo massimo: consacrata in quella rocca di Roma, essa sarebbe stata benigna e propizia, sicura e stabile per il romano popolo. Gli arcieri e i frombolieri e le granaglie furono consegnate ai consoli. Alla flotta delle navi ch'erano in Sicilia col propretore Tito Otacilio, furono aggiunte venticinque quinqueremi, e gli fu consentito, se lo credesse utile per la Repubblica, di portarle in Africa.

 

CAP. XXXVIII - DISCORSI DEI CONSOLI

Terminata la leva, i consoli si trattennero pochi giorni in attesa delle truppe dei socii latini. I soldati furono allora costretti dai tribuni militari a giurare (ciò che non era mai stato fatto in addietro) che si sarebbero adunati a ogni comando dei consoli e non si sarebbero allontanati senza licenza. Fino a quel giorno, infatti, non vi era stato se non un giuramento dì fedeltà, e, quando si erano raccolti nelle decurie o nelle centurie, spontaneamente i cavalieri delle decurie e i fanti delle centurie giuravano tra loro che non fuggirebbero per paura né si staccherebbero dalle file se non per prendere un'arma o per assalire un nemico o per salvare un compagno d'armi. Questo, da patto volontario che si faceva tra loro, fu trasferito davanti ai tribuni come obbligo legale di giuramento.

Prima che si muovessero le insegne, molte ed aspre furono le allocuzioni del console Varrone, il quale protestava che la guerra era stata tirata in Italia dai nobili, e che sarebbe rimasta nel cuore della repubblica se avesse avuto molti Fabii a comandarla; egli l'avrebbe fatta finire nello stesso giorno del suo incontro col nemico. Il suo collega Paolo, fece un discorso solo, il giorno prima che si partisse da Roma; nel discorso, più vero che gradito al popolo, nulla egli disse di ostile a Varrone se non questo solo: egli si meravigliava come un comandante, prima di aver preso conoscenza del proprio esercito e di quello nemico, delle posizioni, della natura dei luoghi, e mentre era ancora in città vestito di toga, sapesse quello che avrebbe dovuto fare un comandante in campo, e potesse perfino predire il giorno in cui avrebbe dato battaglia al nemico; quanto a lui, egli non avrebbe anzi tempo e immaturamente adottato quelle risoluzioni che le circostanze suggeriscono agli uomini, non gli uomini alle circostanze; augurava che si effettuassero felicemente le iniziative prese con cautela e con senno; ché la temerità, oltre a essere stolta, fino a quel momento era risultata causa di sciagure. Appariva di per sé evidente che egli avrebbe preferito le risoluzioni sicure alle rapide; e, affinché in ciò egli ancor più fermamente perseverasse, Quinto Fabio Massimo (si narra) al momento della partenza gli parlò nel modo seguente

 

CAP. XXXIX - ESORTAZIONI DI FABIO MASSIMO

" Se tu avessi, o Lucio Emilio, come io ben vorrei, un collega simile a te, o se tu fossi simile al tuo collega, superfluo sarebbe il mio parlare; giacché, se foste ambedue consoli assennati operereste in tutto secondo il bene dello Stato e secondo la vostra devozione ad esso anche se io mi tacessi, e se invece foste entrambi dissennati né dareste orecchio alle mie parole né porreste mente ai miei consigli. Ora, poiché vedo chi è il tuo collega e chi sei tu, a te solo io parlo; e dico che invano tu sarai valente uomo e cittadino se, quando la repubblica è così zoppicante, avranno egual diritto e potere sì i buoni come i cattivi consigli. Sbaglieresti infatti, o Lucio Paolo, se tu pensassi di aver da lottare più con Annibale che con Caio Terenzio; non so se tu abbia a trovare in quello un nemico più dannoso che in questo; ché con quello dovrai combattere soltanto in campo, con questo in tutti i luoghi e in tutti i momenti, e contro Annibale e contro le sue legioni tu combatterai coi tuoi fanti e coi tuoi cavalieri, mentre Varrone guiderà i tuoi soldati a combattere te. E sia lontana da te, come un malo augurio, la memoria di Caio Flaminio, benché quello cominciò a insanire quando fu console, in provincia e con l'esercito, mentre questo impazzò già prima di chiedere il consolato, poi nel chiedere il consolato, ed anche ora che è console impazza prima d'aver visto il campo e il nemico. E che cosa pensi tu che sia per fare costui in mezzo a uomini in armi e dove i fatti tengono subito dietro alle parole, se già ora scatena tante battaglie e tempeste e contese blaterando fra i cittadini? Invece, se costui, come grida di voler fare, darà subito battaglia, o io non conosco l'arte militare e questo genere di guerra e questo nemico, o ci sarà un altro luogo più famoso per disastri nostri che non sia stato il Trasimeno. Né già io penso ora a vantarmi di fronte a un solo, quando ho ecceduto piuttosto nel disdegnare che nel cercare la gloria; ma cosi è: per far guerra ad Annibale v'è una sola maniera, quella con cui io l’ho fatta; e dimostra ciò non solo l'esito (ché questo è il maestro degli stolti) ma anche la ragione, che fu e sarà immutabile, fino a tanto che le cose restino quali sono.

Noi guerreggiamo in Italia, in casa nostra, sul territorio nostro; intorno a noi tutto è pieno di concittadini e di alleati; questi ci aiutano e ci aiuteranno con armi uomini cavalli vettovaglie; ci hanno già dato prova di questa fedeltà durante la nostra fortuna avversa; la situazione e il momento ci rendono più forti, più prudenti, più sicuri: Annibale invece è in terra straniera e nemica, ove, tutto gli è ostile e dannoso, lontano dalla casa, dalla patria; non ha pace né in terra né in mare; nessuna città, nessuna terra lo accoglie; in nessun luogo, ha nulla di suo; vive alla giornata, di rapine; ha appena la terza parte dell'esercito con cui passò l’Ebro; gliene ha distrutto più la fame che il ferro, e anche a questi pochi ormai non basta il vitto. Dubiti dunque tu, che temporeggiando possiamo vincere costui, che di giorno in giorno perde le forze, che non ha viveri, non ha riserve, non ha denaro? Da quando tempo è fermo davanti a Gereonio, misero castello pugliese, come se fosse innanzi alle mura di Cartagine! Ma neanche con te io mi vanterò; guarda come Cneo Servilio e Atilio, gli ultimi consoli, lo hanno eluso! Questa è la sola via buona, o Lucio Paolo, e te la renderanno difficile e dura più i concittadini che non i nemici. Giacché la stessa cosa vorranno i tuoi soldati come quelli nemici, la stessa cosa brameranno il console romano Varrone e il comandante punico Annibale. Devi resistere, tu solo, a due comandanti. E resisterai, se rimarrai abbastanza saldo contro le ciarle e le proteste della gente, se non ti smuoverà né la vanagloria del collega né una tua vana paura di disonore.

La verità, si dice, troppo spesso soffre, ma non si spegne mai; colui che disprezza la gloria vera gloria avrà. Lascia pure che dicano timidezza la tua cautela, lentezza la tua prudenza, inettitudine la tua perizia! Voglio che il nemico saggio ti tema piuttosto che ti esaltino stolti cittadini. Se tutto oserai, Annibale ti disprezzerà, ti temerà se non arrischierai nulla. Né già io ti consiglio di non far nulla, ma di lasciarti condurre, quando agirai, dalla ragione invece che dalla fortuna; di aver sempre il dominio di te stesso e d'ogni cosa; di essere sempre vigile in armi; che non manchi mai all'occasione ma che non dia mai al nemico l'occasione a lui propizia. Se non avrai fretta, tutto sarà per te chiaro e sicuro; la fretta è improvvida e cieca. "

 

CAP. XL - I CONSOLI AL CAMPO

La risposta del console non fu molto lieta, ché egli disse che le cose dette erano più vere che facili a farsi. Un maestro della cavalleria era stato intollerabile per un dittatore; qual forza e quale autorevolezza avrebbe un console contro un collega sedizioso e temerario? Egli nel suo primo consolato era uscito mezzo abbruciato dall'incendio popolare; bramava che tutto si svolgesse felicemente; ma, se accadesse qualche sciagura, avrebbe offerto più volentieri la testa ai colpi nemici piuttosto che ai suffragi degli irritati concittadini. Si narra che dopo queste parole Paolo si mise in cammino seguìto dai più insigni patrizii; il console plebeo fu seguìto dalla sua plebe, più vistosa per il suo numero, ma senza persone autorevoli.

Come furono giunti al campo, congiunsero l'esercito nuovo col vecchio, fecero due accampamenti, sì che il nuovo e più piccolo si trovasse più vicino ad Annibale, e nel vecchio stesse la parte maggiore e tutto il nerbo delle forze; poi dei due consoli precedenti rimandarono a Roma Marco Atilio che adduceva a sua scusa l'età, e a Gèmino Servilio diedero il comando, nel campo minore, di una legione romana e di due mila tra cavalieri e fanti alleati. Annibale, benché vedesse accresciute di una metà la forze nemiche, pure si allegrò straordinariamente dell'arrivo dei consoli. Non solo infatti non gli avanzava nulla dei viveri che di giorno in giorno predava, ma neppure gli restava più ove predarne, ché tutto il grano, per la poca sicurezza della campagna, era stato trasportato nelle città fortificate; sì che, come si seppe in séguito, gliene rimaneva appena per dieci giorni, e, se si fosse ancora differita l'occasione propizia, gli ispanici erano già preparati a disertare.

 

CAP. XLI - FINTA FUGA DI ANNIBALE

Anche il caso, del resto, diede fomento alla temerità e all'avventata indole del console, giacché in uno scontro disordinato, avvenuto più per opera dei soldati stessi intesi a respingere i razziatori che per disposizione o per ordine dei capi, il combattimento non fu punto favorevole ai Cartaginesi. Ne furono uccisi circa mille e settecento, mentre, caddero non più di cento fra romani e socii. Ma il console Paolo, che aveva quel giorno il comando (giacché lo tenevano a giorni alterni), per timore di agguati trattenne i vincitori che si erano dati a un disordinato inseguimento, con grande indignazione di Varrone, strepitante che ci si lasciava sfuggir di mano il nemico e che, se non ci. si fosse ritirati, si sarebbe potuto mettere fine alla guerra.

. Quello scacco non diede gran cruccio ad Annibale; egli anzi pensò che ne fosse stata adescata la temerità del console più audace e quella particolarmente dei soldati novelli. Ché tutte gli erano note le faccende dei nemici, non meno che le sue proprie, sapeva che i due comandanti erano dissimili e discordi, e che, quasi due terzi dell'esercito erano soldati novizii. Sapendo dunque che il tempo e il luogo erano atti a insidie, nella notte seguente, coi soldati muniti delle sole armi, lasciò il campo pieno di ogni specie di roba, sì dell'esercito come dei privati e di là dai monti vicini nascose a sinistra i fanti e a destra la cavalleria, in ordine di battaglia, e fece risalire per la vallata la colonna dei bagagli, col proposito di schiacciare il nemico intento e occupato che fosse nel dare il sacco al campo, che appariva abbandonato per la fuga dell'esercito. E lasciò accesi nel campo molti fuochi, perché si credesse che egli, mentre fuggendo metteva più lungo spazio tra sé e il nemico, avesse voluto far rimanere i consoli nelle loro posizioni con quella falsa apparenza di accampamento: inganno simile a quello da lui usato con Fabio l'anno precedente.

 

CAP. XLII- L’INGANNO SVENTATO

Come fu giorno, da prima recò maraviglia che le guardie fossero state ritirate, poi, nell'accostarsi più da presso, l'insolito silenzio. Accertato ben presto l'avvenuto abbandono del campo, fu un gran correre alle tende dei consoli annunziando che il nemico era fuggito in tal fretta che aveva lasciato il campo con le tende rizzate e, perché la fuga fosse più occulta, con molti fuochi accesi. Si levò allora gran clamore, chiedendo che i consoli ordinassero di trar fuori le schiere e di condurle a inseguire il nemico e a dar subito il sacco agli accampamenti. E uno dei consoli pareva anch'egli parte della turba militare. Paolo invece diceva e ripeteva che bisognava veder bene e assicurarsi; in fine, non potendo altrimenti trattenere né la sedizione né il capo di essa, mandò fuori in esplorazione il prefetto Marco Statilio con uno squadrone dì Lucani. Egli, dopo aver cavalcato fino alle porte, ordinò a tutti gli altri di fermarsi fuori delle fortificazioni, ed entrò con due cavalieri entro il vallo; osservò tutto con cura e riferì che certo v'era sotto un'insidia: aveva veduto che i fuochi erano stati lasciati accesi nella parte rivolta verso il nemico, le tende aperte e tutte le cose più care in vista, e in alcuni punti argenterie buttate confusamente nelle strade come per offrirle a preda. Tutto ciò, che fu annunziato per dissuadere gli animi dalla cupidigia, invece l'attizzò; e, poiché i soldati levavano alte grida dicendo che andrebbero soli senza i comandanti se non si desse il segnale, il comandante non mancò; Varrone infatti diede subito il segnale. Paolo, già di per sé esitante, ebbe dai sacri polli sfavorevoli auspicii, e ne fece dar notizia al collega che già usciva con le insegne dalla porta. Varrone, benché ciò lo indispettisse, pure fu invaso da religioso timore nel ricordo del recente caso di Flaminio e della sconfitta navale patita durante la prima guerra punica dal console Claudio. E gli Dei stessi, quasi, quel giorno differirono, se non impedirono, il disastro che ormai sovrastava ai Romani. Accadde, infatti che, mentre le truppe non volevano obbedire al comando di rientrare nel campo dato dal console, due servi, l'uno d'un cavaliere formiano, l'altro d'un sidicino, che sotto i consoli Servilio e Atilio erano stati catturati mentre foraggiavano dai Nùmidi, erano fuggiti e tornavano quel giorno ai lor padroni. Condotti innanzi ai consoli, riferirono che tutto l'esercito di Annibale era in agguato di là dai monti vicini. Il tempestivo arrivo di costoro ridiede autorità ai consoli, quando l'ambizione d'uno di loro aveva, con deplorevole indulgenza, sminuita la loro maestà.

 

CAP. XLIII - RITIRATA DI ANNIBALE IN PUGLIA

Annibale, come vide che i Romani si erano bensì inconsideratamente mossi ma non si erano più oltre avventurati, scopertasi e resa vana la sua frode, ritornò nell'accampamento. Ma non poté fermarvici molti giorni per penuria di viveri, e ogni giorno sorgevano nuovi propositi non solo tra i soldati, accozzaglia d'ogni sorta di gente, ma anche nel comandante stesso. Era cominciato da prima un sordo mormorare, poi questo si era mutato in aperta vociferazione, che tutti richiedevano il soldo dovuto e si lagnavano prima della scarsità del cibo poi della fame; e i mercenarii, massime gli ispanici, si erano, dicesi proposto di disertare; e anche si dice che talvolta lo stesso Annibale avesse fatto pensiero di fuggire nella Gallia, dando di volta con la cavalleria e abbandonando tutta la fanteria. Tali erano dunque i propositi e tale lo stato d'animo nel campo; ond'egli risolse di partir di là verso i luoghi dell'Apulia, più caldi e per ciò più maturi per i raccolti, ed anche perché più difficili sarebbero state, quanto più si fosse lontani dal nemico, le diserzioni dei soldati più volubili.

Partì di notte, lasciando a inganno alcuni fuochi accesi e alcune tende, sì che il timore di agguati trattenesse, come già dinanzi i Romani. Ma poiché lo stesso Statilio lucano, esplorata ogni zona di là dal campo e di là dai monti, riferì che si vedevano ormai lontane le colonne dei nemici, allora si cominciarono ad avanzare proposte d'inseguimento. Il parere dei due consoli era pur sempre lo stesso, e quasi tutti consentivano con Varrone, nessuno con Paolo, tranne Servilio, il console dell'anno innanzi; onde per quasi unanime deliberazione partirono, incalzati dal Fato, a rendere famosa Canne per la sconfitta romana. Presso questo borgo aveva Annibale posto il campo, con le spalle al vento Volturno che in quelle campagne arse dalla siccità porta nubi di polvere. E tale disposizione, buona per gli alloggiamenti, doveva essere sommamente propizia quando si sarebbero schierati a battaglia, giacché così, soffiando il vento soltanto da tergo, avrebbero combattuto rivolti alla parte opposta contro il nemico acciecato dalla polvere.

 

CAP. XLIV - CANNE: I CONSOLI DISCORDI

I consoli, inseguito il Pùnico con un costante servizio di esplorazione lungo il cammino giunsero presso Canne, ed ivi, ormai in vista del nemico, formarono due campi quasi alla stessa distanza che avevano stabilita presso Gereonio, dividendo come allora le forze. Il fiume Aufido, scorrendo presso entrambi i campi, dava modo, pur non senza contrasti, di provvedere acqua secondo l'opportunità di ciascuno; però i Romani prendevano l'acqua più liberamente dal campo minore che era posto di là dall'Aufido, perché su la riva opposta non v'erano presidii nemici. Annibale, venuto nella speranza che i consoli gli avrebbero data occasione di battaglia in quei luoghi singolarmente propizii ai combattimenti equestri, nei quali egli era invincibile; dispose le truppe, e con incursioni di Nùmidi provocava il nemico. E allora il campo romano tornò a turbarsi per agitazioni dei soldati e per discordia dei consoli, giacché Paolo opponeva a Varrone la temerità di Sempronio e di Flaminio, Varrone opponeva l'esempio, magnifico per comandanti timidi e inerti di Fabio, e chiamava Dei e uomini a testimoniare che non era colpa sua se Annibale si era presa l'Italia come a usufrutto; che egli era tenuto con mani legate dal collega; che si toglievano le armi alle truppe irritate bramose di combattere; replicava l'altro che, se alle truppe lanciate e gettate inconsideratamente e improvvidamente in battaglia fosse accaduto un infortunio, si terrebbe esente da colpa, ma che pure in qualsiasi evento avrebbe voluto aver la sua parte; badasse Varrone che chi era pronto e temerario a parole fosse egualmente valido col braccio nella battaglia.

 

CAP. XLV - CANNE: VARRONE SCENDE IN CAMPO

Mentre si perdeva tempo in dispute più che in provvedimenti, Annibale, ritirate nel campo tutte le altre forze che aveva tenute schierate fino a giorno inoltrato, mandò i Nùmidi oltre il fiume ad assalire i Romani che andavano dal campo minore ad attingere acqua. Come quelli, usciti fuori con gran clamore, appena giunti su la riva ebbero vòlto in fuga quella turba sbandata, furono tratti dal loro impeto fino a un corpo di guardia posto avanti al vallo e quasi presso le porte. Parve ciò veramente indecoroso, che incomposti ausiliarii giungessero, a mettere sgomento nel campo stesso romano; sì che una sola causa trattenne i Romani dal passar subito il fiume e dall'uscire a battaglia: il fatto che quel giorno il supremo comando era in mano di Paolo. E il giorno seguente Varrone, avendo egli il comando, senza consultare affatto il collega alzò l'insegna di battaglia, e con le truppe schierate passò il fiume, seguìto da Paolo che poteva bensì disapprovare la risoluzione ma non ricusare il suo aiuto. Passato il fiume, congiunsero le forze con quelle del campo minore, e così disposero lo schieramento: all'ala destra (che era più vicina al fiume) misero la cavalleria romana, poi la fanteria; l'ala sinistra fu formata con la cavalleria dei socii, e più al centro i fanti dei socii uniti alle legioni romane; la prima linea fu formata dagli arcieri e dalle truppe leggere ausiliarie. I consoli stavano alle ali, Terenzio alla sinistra, Emilio alla destra; a Gèmino Servilio fu dato il comando del centro.

 

CAP. XLVI - CANNE: LO SCHIERAMENTO DI ANNIBALE

All'alba, Annibale mandò innanzi i Balearici e gli altri armati leggieri, e, passato il fiume, li schierò nell'ordine steso in cui li aveva mandati: i cavalieri galli e ispanici all'ala sinistra presso la riva di fronte alla cavalleria romana; l'ala destra fu assegnata ai cavalieri nùmidi; il centro fu costituito dalla fanteria, in modo che i fianchi fossero composti di africani e che nel mezzo stessero galli e ispanici. Gli africani li avresti creduti quasi tutti truppe romane, armati com'erano di armi prese al Trebbia e particolarmente sul Trasimeno. Galli e ispanici avevano scudi quasi eguali, spade differenti: i galli, assai lunghe e senza punta; gli ispanici, usi ad attaccare il nemico più di punta che di taglio, corte ma maneggevoli, e con la punta. E anche il resto dell'acconciatura di queste genti era terrificante sì per la gran mole dei corpi sì per l'aspetto: nudi i galli dall'umbilico in su, avvolti gli ispanici in tuniche di lino orlate di porpora, splendenti di mirabile candore. Il numero dei fanti schierati per quella battaglia fu di quaranta mila, di dieci mila quello del cavalieri. I comandanti erano alle ali, alla sinistra Asdrubale, alla destra Maàrbale; il centro era tenuto dallo stesso Annibale e dal suo fratello Magone. Il sole, o perché si fossero così disposti di deliberato proposito o fosse caso, batteva l’una e l'altra parte, molto opportunamente, di fianco, essendo i Romani vòlti a mezzogiorno, i Pùnìci verso settentrione. Il vento (gli abitanti del luogo lo chiamano Volturno), soffiando in faccia ai Romani, toglieva ad essi la vista spingendo loro gran polvere in pieno viso.

 

CAP. XLVII - CANNE: LA BATTAGLIA

Levatosi il grido di guerra, si spinsero innanzi gli ausiliarii, e dapprima il combattimento fu tra gli armati leggieri; poi l'ala sinistra della cavalleria gallica e ispanica si azzuffò con l'ala destra romana, non tuttavia in forma di combattimento equestre: bisognava infatti lottare frontalmente perché, non essendoci intorno spazio per evoluzioni, da un lato le serravano le schiere dei fanti e dall'altro il fiume. Si urtarono dunque d'ambe le parti in linea di fronte; forzati a immobilità dalla calca i cavalli, i cavalieri si abbrancavano, l'uno per gettar l'altro di sella. La battaglia era ormai divenuta prevalentemente pedestre; tuttavia si combatté piuttosto aspramente che a lungo, e i cavalieri romani, respinti, volsero in fuga. Mentre finiva il combattimento equestre cominciò quello dei fanti, dapprima eguale di forze e d'impeto, fin tanto che galli e ispanici tennero fermo; infine i Romani, dopo lungo e ripetuto sforzo, avanzando di fronte e in file serrate, fecero ripiegare il cuneo nemico, troppo esiguo e per ciò poco resistente che sporgeva innanzi dalla linea. Allora, così respintili e vòltili in trepida fuga, li incalzarono, e, dallo stesso slancio trasportati, attraverso le schiere atterrite fuggenti a precipizio, in mezzo alla massa centrale, alla fine giunsero senza trovar resistenza agli ausiliarii africani, i quali si tenevano fermi su le ali arretrate, di qua e di là, mentre le schiere di mezzo formate dai gallo-ispani si sporgevano alquanto innanzi. E quando quel cuneo, prima respinto indietro, si fu portato su la stessa linea del fronte, e poi, retrocedendo, aperse un vuoto nel mezzo, gli africani già formavano due curve avvolgenti, e quindi avvolsero ai fianchi i Romani incautamente irruenti; infine, stendendosi ancor più accerchiarono i nemici anche da tergo. Allora i Romani, dopo di aver combattuto invano quella prima battaglia, non si curaron più dei gallo-ispani di cui avevano tartassate le spalle, e cominciarono una battaglia nuova anche contro gli africani, per essi svantaggiosa non tanto perché da accerchiati contro accerchianti, quanto perché stanchi dovevano combattere contro forze fresche e vigorose.

 

CAP. XLVIII - CANNE: UN INGANNO DEI NUMIDI

Ed anche all'ala sinistra dei Romani, ove contro i Nùmidi stavano i cavalieri dei socii, ardeva la battaglia, lenta dapprima e incominciata con una frode punica. Circa cinquecento nùmidi, che oltre le solite armi e i giavellotti avevano gladii nascosti sotto le corazze, si erano avanzati lontano dai loro fingendosi disertori, con gli scudi dietro le spalle; poi repentinamente eran scesi da cavallo, e, gettati ai piedi dei nemici gli scudi e i dardi, furono ricevuti in mezzo allo schieramento e, condotti nelle ultime file, ebbero l'ordine di fermarsi là dietro. Fino a che la battaglia non fu accesa da tutte le parti, si stettero fermi; quando poi la lotta ebbe occupati gli occhi e gli animi di tutti, allora, dato di piglio agli scudi che giacevano sparsi qua e là tra i mucchi degli uccisi, assalirono i soldati romani alle spalle, e, ferendoli alla schiena e tagliando loro i garetti, produssero grande strage, e spavento e confusione anche maggiori. Qua era dunque terrore e fuga, là battaglia ostinata senza più speranza; onde Asdrubale, che comandava da quella parte, fatti uscire i Nùmidi dal folto della mischia perché essi combattevano fiaccamente quando avevano il nemico di fronte, li mandò all'inseguimento dei dispersi fuggiaschi, e agli africani, ormai stanchi più dall'uccidere che dal combattere, aggiunse i cavalieri gallo-ispani.

 

CAP. XLIX - CANNE: MORTE DI PAOLO EMILIO

Nell'altro settore della battaglia Paolo, benché già nel primo scontro fosse stato subito ferito gravemente da un colpo di fionda, pure non solo mosse più volte con reparti compatti contro Annibale, ma anche in alcuni punti rinfrancò il combattimento, protetto dai cavalieri romani i quali da ultimo si appiedarono, perché al console mancava la forza perfino di reggere il cavallo. Si narra che Annibale allora, a chi gli riferiva che il console aveva dato l'ordine di appiedare, esclamò: " Come avrei preferito che me li avesse consegnati belli e legati! " La battaglia dei cavalieri a piedi fu quale doveva essere per l'ormai sicura vittoria del nemico, volendo i vinti morire sul posto piuttosto che fuggire, i vincitori trucidano quelli che non potevano scacciare, furiosi per l'indugio che essi mettevano alla vittoria. Ricacciarono alla fine quei pochi che restavano, sfiniti dalla fatica e dalle ferite. Quindi furono tutti sbaragliati, e quelli che poterono ripresero i cavalli per fuggire. Come il tribuno dei soldati Cneo Lèntulo, passando oltre a cavallo, vide il console tutto insanguinato seduto su un sasso, " Lucio Emilio ", gli disse, "il solo che gli Dei debbono riconoscere incolpevole di questo disastro, monta su questo cavallo, fin tanto che ti rimane un po' di forza e fin ch'io posso prenderti su e proteggerti! Non rendere funesta questa battaglia anche con la morte di un console; abbastanza sono, anche senza questo, le lagrime e i lutti! " Gli rispose il console: " Onore al tuo valore, Cneo Cornelio; ma bada di non perdere, inutilmente pietoso, la possibilità di sfuggire alle mani del nemico. Va'; di' pubblicamente ai Padri che rafforzino le difese della città e la assicurino con guarnigioni prima che il nemico sopraggiunga; e in particolare di' a Fabio che Emilio è fin qui vissuto e muore memore dei suoi precetti. Lascia ch'io muoia in questa strage dei miei soldati, sì ch'io nell'uscir di carica non mi trovi ad essere un'altra volta accusato, o a diventare accusatore del mio collega per difendere con la colpa altrui la mia innocenza. " Mentre così parlavano, prima li sorprese la turba dei fuggiaschi poi quella dei nemici; questi, non conoscendolo, coprirono il console con una nuvola di dardi; Lèntulo tra la confusione fu dal cavallo portato lontano. Allora fu una fuga generale e sfrenata. Sette mila uomini ripararono nel campo minore, dieci nel maggiore, due circa nel vicino borgo di Canne, ma questi, non essendo il borgo punto fortificato, furono subito accerchiati dai cavalieri di Cartalone. L'altro console, che o di proposito o per caso non si era unito a nessun gruppo di fuggiaschi, riparò in Venosa con un drappello di circa cinquanta cavalieri. Quarantacinque mila fanti, si dice, e due mila settecento cavalieri, metà romani e metà socii, caddero uccisi: tra essi i due questori dei consoli: Lucio Atilio e Lucio Furio Bibàculo, e ventinove tribuni dei soldati, alcuni consolari e già stati pretori o edili (tra essi Cneo Servilio e Marco Minucio, ch'era stato maestro della cavalleria l'anno precedente e console alcuni anni addietro); e inoltre ottanta senatori o eleggibili senatori per le cariche già esercitate, i quali si erano arruolati come volontarii. Tre mila fanti e millecinquecento cavalieri si narra che furon fatti prigionieri.

 

CAP. L - CANNE: SORTITA DAI DUE CAMPI

Tale fu la battaglia di Canne, eguale per rinomanza alla disfatta dell'Allia, ma, se meno grave rispetto a ciò che seguì, perché il nemico desistette dalle ostilità, più grave e più disastrosa per la strage toccata all'esercito. La fuga su l'Allia, infatti, fece perdere l'Urbe ma lasciò salvo l'esercito, mentre a Canne appena cinquanta uomini seguirono un console, e con l'altro che mori giacque quasi tutto l'esercito.

Nei due campi v'era una moltitudine quasi disarmata e senza capitani; quelli che erano nel campo maggiore mandarono a dire agli altri che si unissero con loro, mentre il sonno teneva i nemici, affranti dalla battaglia e poi dalle restanti gozzoviglie: se ne sarebbero andati in un’unica colonna a Canosa. Alcuni respingevano risolutamente la proposta; perché dunque quelli che così li chiamavano non venivano essi stessi, poiché la congiunzione poteva farsi anche così? Certo, perché tutto era intorno pieno di nemici, ed essi preferivano esporre a sì grave pericolo piuttosto gli altri che non sé stessi! Ad altri non tanto spiaceva la proposta quanto mancava l'animo. Publio Sempronio Tuditano, tribuno dei soldati, disse: " Preferite dunque essere catturati da un cupidissimo e crudelissimo nemico, e che le vostre teste siano messe a prezzo, e se ne chieda il pagamento da chi domanderà se siate cittadini romani o socii latini, sì che la vostra vergogna e la vostra miseria procacci onore agli altri? Non lo vorrete, se pure siete i concittadini del console Lucio Emilio che preferì morire bene anziché ignominiosamente vivere, e dei tanti valorosissimi che sono ammucchiati intorno a lui. Ma, prima che la luce ci colga qui e più dense terme nemiche ci chiudano la via, erompiamo, aprendoci il passo tra questi drappelli disordinati che schiamazzano su le porte! Col ferro e con l'audacia ci si fa strada anche tra dense schiere nemiche. Stretti a cuneo, passeremo attraverso questa gente rilassata e scomposta come se nulla ci si opponesse. Venite dunque tutti con me, se volete salvare voi stessi e la repubblica! " Ciò detto, impugna il gladio e, formato il cuneo, irrompe in mezzo ai nemici. E poiché i Nùmidi saettavano sul fianco destro ch'era scoperto, passarono gli scudi sul braccio destro, ripararono in circa seicento nel campo maggiore e subito di là, aggiuntasi a loro un'altra più grande schiera, giunsero incòlumi a Canosa. Ciò quei vinti fecero per impulso spontaneo, secondo che il loro tempera mento o la situazione li spingeva, non per ragionata deliberazione o per altrui comando.

 

CAP. LI – ESITAZIONE DI ANNIBALE; IL CAMPO DELLA STRAGE

Tutti circondavano il vincitore Annibale, e si congratulavano con lui, e lo esortavano a dare a sé stesso e ai soldati stanchi, ora che quella sì gran guerra era compiuta, riposo per il resto della giornata e per la notte seguente. Maàrbale invece, il comandante della cavalleria, pensava che non si dovesse punto indugiare: " Anzi ", disse, " perché tu ben sappia quanto si sia ottenuto con questa giornata, [io ti dico che] fra cinque giorni banchetterai vincitore sul Campidoglio. Seguimi; io ti precedo con la cavalleria, affinché ti sappiano giunto prima di apprendere che ti sei messo in marcia. " Troppo bella cosa parve questa ad Annibale, ma troppo più; grande che si potesse lì per lì deliberarla. Disse dunque che elogiava la buona volontà di Maàrbale ma che occorreva un di tempo per ponderare siffatto consiglio. Al che Maàrbale: " Eh sì, a nessuno dànno tutto gli Dei; tu sai vincere, Annibale, ma non sai sfruttare la vittoria. " E ben si crede che l'indugio di quel giorno fu la salvezza dell'Urbe e dell'impero.

L'indomani, all'alba, attesero a raccogliere le spoglie e a contemplare la strage, orrenda anche per, un nemico, tante migliaia di romani giacevano, fanti misti a cavalieri, come li aveva accomunati il caso o nel combattimento o nella fuga. Alcuni, riscossi dal dolore delle ferite inaspritesi nel freddo mattutino, si alzavano insanguinati di tra il, carnaio; e furono finiti dai nemici. Altri furono trovati vivi, coi fèmori o coi pòpliti recisi, che si nudavano la gola e la nuca, e chiedevano che fosse lor tolto il sangue rimasto. Altri furono trovati con la testa ficcata in una buca, e si vedeva che se l'erano scavata essi stessi, e che gettandovisi e coprendosi di terra si eran tolta la vita. Particolarmente fu notato un nùmida ancor vivo, tratto di sotto a un romano che gli giaceva, addosso, con le orecchie e col naso strappati, giacché quelle, non potendo più con le mani far uso dell'arma, di irato divenuto rabbioso., era spirato addentando il nemico.

 

CAP. LII - OCCUPAZIONE DEI DUE CAMPI ROMANI

Continuò fino a giorno inoltrato la raccolta delle spoglie; dopo di che Annibale mosse ad assaltare il campo minore, e innanzi tutto, con una linea fortificata, li tagliò fuori dal fiume. Del resto, la resa avvenne più presto ch'egli non sperasse, essendo tutti prostrati dalla fatica e anche dalle ferite. Fu pattuito che consegnassero armi e cavalli, e che il riscatto avesse ad essere di trecento nummi quadrigati per ogni romano, di duecento per ogni socio e di cento per gli attendenti, e che, pagato tal prezzo, potessero andarsene con una veste; poi i nemici li fecero entrare nel proprio campo, e furono tutti messi sotto custodia, i romani divisi dai socii.

Mentre là si perdeva così il tempo, dal campo maggiore si erano rifugiati a Canosa circa quattro mila uomini e duecento cavalieri, ai quali erano bastati l'animo e le forze, alcuni ordinati in schiera altri gettatisi disordinatamente per i campi (il che non era meno sicuro); e il campo, fu poi consegnato al nemico, con le stesse condizioni fatte all'altro, dai feriti e dai pavidi ivi rimasti. Copiosissimo fu il bottino, e, tranne i cavalli e gli uomini e tutto quello che v'era di argento (e ve n'era molto nelle falere dei cavalli, giacché usavano poca argenteria da tavola, particolarmente durante la milizia), tutto il resto fu dato a saccheggiare. Poi Annibale ordinò che si adunassero i cadaveri dei loro, per seppellirli. Si dice che fossero ottomila, tutti di gagliardissimi guerrieri. E secondo alcuni scrittori fu cercato e sepolto anche il console romano.

Quelli che eran riparati a Canosa, e che dai Canosiani avevano avuto soltanto alloggio entro le mura e nelle case, furono da una donna pugliese di nome Busa, insigne per nascita e per ricchezze, sovvenuti di abiti, di frumento e anche di denaro; e per tale sua munificenza il Senato, a guerra finita, le tributò grandi onori.

 

CAP. LIII - PUBLIO SCIPIONE SVENTA UN COMPLOTTO

Là erano quattro tribuni dei soldati: Fabio Massimo della prima legione, il padre del quale era stato dittatore l'anno innanzi, Lucio Publicio Bìbulo e Publio Cornelio Scipione della seconda legione, e Appio Claudio Pulcro della terza, che era stato ultimamente edile; e per unanime consenso il comando superiore fu dato a Publio Scipione ancor giovinetto e ad Appio Claudio. Mentre essi, in piccolo comitato, si consultavano su la situazione, Publio Furio Filo, figlio di un consolare, disse loro che essi nutrivano invano una speranza ormai già caduta; disperate e già piante per morte erano le condizioni della Repubblica; alcuni giovini, capeggiati da Lucio Cecilio Metello, erano rivolti al mare e alle navi per abbandonare l'Italia e per riparare presso qualche re. Questa sciagura, atroce e davvero inattesa dopo tanti disastri riempi di pauroso stupore e prostrò gli animi dei presenti, e questi giudicarono che si dovesse adunare un consiglio per deliberare: ma il giovine Scipione, il condottiero destinato di questa guerra, disse che non era quella una cosa da discuterci. Osare e agire bisognava, disse, non discutere in tanto frangente: lo seguissero subito in armi coloro che volevano salva la Repubblica: nessun campo era più veramente nemico di quello in cui si macchinavano siffatte trame. E si lanciò senz'altro, seguito da pochi, verso l'alloggio di Metello, e, trovati là a conciliabolo i giovini come gli era stato riferito, puntò la spada su le teste di quelli esclamando. " Giuro che io non abbandonerò la causa della Repubblica del popolo romano, e che non permetterò a nessun cittadino romano di abbandonarla. Se violerò il mio giuramento, allora Giove ottimo massimo colpisca con la peggiore delle rovine la mia famiglia, la mia casa e ogni cosa mia! Io chiedo che tu, Lucio Cecilio, e che tutti quanti qui siete, giuriate la stessa cosa; chi non giura sappia che questo gladio è impegnato contro di lui. Sbigottiti non meno che se si vedessero innanzi Annibale vincitore, tutti giurano, essi consegnano in custodia a Scipione.

 

CAP. LIV – CONGIUNZIONE DEI PROFUGHI; L’ANNUNZIO DELLA DISFATTA A ROMA

Mentre ciò accadeva in Canosa, arrivarono presso il console a Venosa circa quattro mila e cinquecento tra fanti e cavalieri, che si erano sbandati fuggendo per le campagne. I Venosini se li divisero tra loro, ricevendoli amorevolmente nelle loro case e curandoli; a ogni cavaliere diedero una toga e una tunica e venticinque quadrigati, e dieci ai fanti, e armi a chi ne mancava; e fu prodigata in pubblico e in privato ogni altra forma di ospitalità, facendo tutti a gara perché il popolo venosino non fosse superato in cortesia dalla donna canosina. Ma il gran numero [dei profughi] faceva ormai troppo grave il compito per Busa; già erano quasi diecimila uomini. Appio e Scipione, quando appresero che l'altro console era salvo, mandarono subito a dirgli quanti erano gli uomini a piedi e a cavallo ch'erano con loro, e a chiedergli se volesse che fossero condotti a Venosa o che restassero in Canosa. Varrone stesso venne con le sue genti a Canosa. E ormai v'era una parvenza di esercito consolare e pareva che si sarebbero potuti difendere dal nemico, anche se non con le armi, almeno con le mura.

A Roma non era stato neppure annunziato che eran rimaste queste reliquie di cittadini e di socii, ma avevano riferito che tutto l'esercito coi due consoli e con tutte le genti fosse stato tagliato a pezzi. Non c'era mai stato entro le mura romane, pur essendo incòlume la città, tanto sbigottimento e sì grande tumulto. Mi dichiaro per ciò ìmpari al compito, e non tenterò di raccontare quello che con le mie parole farei minore del vero. Dopo la perdita, nell'anno precedente, di un esercito e di un console, ora si annunziava non già una nuova ferita ma un disastro ben maggiore: due consoli e due eserciti consolari erano distrutti; non c'eran più né un campo romano né comandanti né soldati; Annibale aveva in suo potere l'Apulia, il Sannio e ormai quasi tutta l'Italia. Certo nessun altro popolo avrebbe saputo non crollare sotto il peso di tanta rovina. Si potrebbe paragonarle la rotta patita dai Cartaginesi nella battaglia navale presso le isole Egadi, in séguito alla quale essi, disfatti, si erano ritirati dalla Sicilia e dalla Sardegna, e soffersero poi di diventare tributarii, o anche quella battaglia perduta in Africa, nella quale fu vinto lo stesso Annibale; ma non sono in alcun modo paragonabili se non in ciò, che furono sopportate con minore animo.

 

CAP. LV – PROVVEDIMENTI DEL SENATO

I pretori Publio Furio Filo e Marco Pomponio convocarono il Senato nella Curia Ostilia perché discutesse su la difesa della città; non si dubitava infatti, che il nemico, distrutti gli eserciti, non venisse a oppugnare Roma, la sola operazione bellica che ormai gli restava. Ma non sapevano a qual partito appigliarsi in sì immane disastro e ancora sì mal noto, mentre risonavano gli ululi lamentosi delle donne, e, in mancanza di notizie sicure, si piangevano in quasi tutte le case senza distinzione e i vivi e morti. Allora Quinto Fabio Massimo propose che si mandassero uomini a cavallo per la via Appia e per la Latina a interrogare quelli in cui si sarebbero imbattuti (sicuramente alcuni si dovevano trovare, dei dispersi fuggiaschi) e a riferire qual fosse la sorte dei consoli e degli eserciti, e, se gli Dei immortali, fatti misericordiosi dell'impero, avevano lasciato sopravvivere una qualche parte di Romani, dove fossero tali truppe; e dove si fosse portato Annibale dopo la battaglia, e che cosa preparasse, che cosa facesse, che cosa volesse fare. Toccava ai giovini animosi indagare e apprendere queste notizie; ai Padri il compito, poiché pochi erano i magistrati, di placare il tumulto e la trepidazione cittadina, di allontanare le matrone dalle strade e di costringerle a tenersi tutte nelle lor case, di frenare le lamentazioni funebri delle famiglie, di imporre il silenzio nella città, di disporre che tutti i messaggi fossero portati ai pretori e che ciascuno aspettasse in casa sua l'annunzio della sua sorte di stabilir guardie alle porte a impedire che chiunque uscisse di città, di indurre gli uomini a non sperare salvezza se non nella salvezza delle mura e della città. Quando l'agitazione fosse cessata, allora si dovevano convocar novamente i Padri nella Curia, e si sarebbe discusso della difesa dell'Urbe.

 

CAP. LVI– LUTTO E LUTTUOSE NOTIZIE

Approvarono tutti questa proposta, e i magistrati fecero sgombrare il Foro dalla folla, mentre i senatori stessi andavano chi qua chi là a placare i tumulti. Allora giunse finalmente una lettera del console Caio Varrone [annunziante che]: il console Lucio Emilio e l'esercito erano periti; egli era in Canosa e raccoglieva, quasi da naufragio, le reliquie di sì immane disastro; i soldati dispersi e senz'ordine erano circa dieci mila; il Cartaginese era fermo a Canne, intento a mercanteggiare i riscatti dei prigionieri e le altre prede, non davvero con spirito di vincitore né secondo l'uso proprio di un gran capitano. Si conobbero allora anche dalle famiglie le perdite dei rispettivi congiunti, e di tal lutto fu piena la città che fu sospesa l'annua festa di Cerere, ché né era lecito celebrarla da chi fosse in lutto né si trovò in quella circostanza alcuna matrona che in lutto non fosse. Per ciò affinché per quella stessa cagione non si dovessero tralasciare anche altri riti sacri si pubblici che privati, per decreto del Senato il lutto fu ridotto a trenta giorni. Quando poi, placata l'agitazione cittadina, i senatori furono riconvocati nella Curia, giunse un'altra lettera dalla Sicilia, del propretore Tito Otacilio: una flotta cartaginese devastava il regno di Gerone; mentre egli voleva recargli il domandato soccorso, gli era stato annunziato che presso le isole Egadi stava un'altra flotta pronta e in pieno assetto, la quale, appena i Pùnici si fossero accorti d'una sua mossa intesa a proteggere il litorale siracusano, avrebbe attaccato subito Lilibèo e il resto della provincia romana; era dunque necessaria una squadra, se si volevano difenderei re alleato e la Sicilia.

 

CAP. LVII– RITI, PROVVEDIMENTI E LEVE

Presa visione delle lettere del console e del propretore, fu stabilito che il pretore Marco Claudio, il quale comandava la flotta alla fonda presso Ostia, fosse mandato a Canosa presso l'esercito e che si scrivesse al console di consegnare l'esercito al pretore e di venire, quanto più presto potesse senza danno per la Repubblica, a Roma. Oltre a tanti disastri, erano tutti sbigottiti si da nuovi prodigi e sì dal fatto che in quell'anno due vestali, Opimia e Floronia, erano state scoperte colpevoli di fornicazione, e l'una stata seppellita viva, secondo l'uso, presso la porta Collina, l'altra si era da sé tolta la vita. Lucio Cantilio, scriba del pontefice, uno di quelli che ora son chiamati pontefici minori, che aveva fornicato con Floronia, era stato pubblicamente flagellato con le verghe dal pontefice massimo fino a che morì sotto i colpi. Essendosi questo misfatto ritenuto, in mezzo a tante calamità, come un prodigio, fu ordinato ai decèmviri di consultare i Libri, e Quinto Fabio Pittore fu mandato a Delfo a consultare l'oracolo, con quali preghiere e supplicazioni si potessero placare gli Dei, e quale sarebbe la fine di tante sciagure. Intanto, secondo le Prescrizioni dei Libri fatali, furono compiuti alcuni sacrifìci straordinaii tra i quali un uomo e una donna di Gallia e un greco e una greca furono messi vivi sotterra nel Foro boario in un recinto di pietre già in precedenza insanguinato da vittime umane, con rito che però non era romano.

Placati bastantemente, come ad essi parve, gli Dei, Marco Claudio Marcello mandò da Ostia a Roma mille cinquecento soldati, ch'egli aveva arruolati per la flotta, a difesa della città; egli, mandata innanzi coi tribuni dei soldati a Teano Sidicino una legione di marina (era la terza) e consegnata la flotta al collega Publio Furio Filo, pochi giorni dopo marciò a grandi giornate verso Canosa. Quindi Marco Giunio, creato dittatore per decreto del Senato, e Tito Sempronio maestro della Cavalleria, indetta una leva, coscrissero i giovini dai diciassette anni in su, e alcuni ch'erano ancora pretestati; di questi si formarono quattro legioni e mille cavalieri. Mandarono poi ai socii e ai popoli latini, per avere da essi truppe secondo il convenuto. Fecero preparare armi d'ogni sorta, e staccarono da templi e da portici le antiche spoglie nemiche. E nuovi modi di leva suggerì la scarsezza di uomini liberi e la necessità: riscattarono a spese pubbliche e armarono, dopo di aver loro chiesto se volevano servire nella milizia, otto mila validi schiavi. Preferirono questa specie di soldati, benché potessero con minor prezzo riscattare i prigionieri.

 

CAP. LVIII– UN'AMBASCERIA DI PRIGIONIERI

Infatti Annibale, dopo sì grande vittoria riportata a Canne, assorto in faccende più proprie d'un vincitore che d'un belligerante, si era fatti condurre innanzi i prigionieri, li aveva separati, e, come già sul Trebbia e sul Trasimeno, aveva lasciati andare senza riscatto gli alleati [dei Romani], dopo di aver loro benevolmente parlato; poi chiamò anche i romani, il che mai non aveva fatto in addietro, e parlò loro con assai mite discorso: egli non faceva ai Romani una guerra di sterminio; si lottava per l'onore e per la supremazia; come i suoi padri avevano ceduto alla romana superiorità, così anch'egli tendeva a ottenere che si cedesse ora al suo valore e alla fortuna sua; per ciò offriva ai prigionieri il modo di riscattarsi; il prezzo per testa era di cinquecento quadrigati per i cavalieri, di trecento per i fanti, di cento per gli attendenti. Sebbene si venisse così ad aumentare al quanto per i cavalieri il prezzo che avevano pattuito nell' arrendersi, nondimeno accettarono lieti ogni condizione. Fu allora deliberato che si scegliessero mediante votazione dieci di loro, i quali si recassero a Roma presso il Senato; né fu richiesto loro altro pegno se non che giurassero di ritornare. Fu mandato con essi Cartalone, nobile cartaginese, il quale, se mai trovasse gli animi inclini alla pace, ne esponesse le condizioni. Erano già usciti dal campo; e uno di loro, non punto romano d'animo, fingendo di aver dimenticato qualche cosa ritornò nel campo, per mostrare così d'aver mantenuto il giuramento; e prima di notte raggiunse i compagni. Quando fu annunziata a Roma la loro venuta, fu mandato incontro a Cartalone un littore, a intimargli in nome del dittatore di uscire prima di sera dai confini romani.

 

CAP. LIX– I RAPPRESENTANTI DEI PRIGIONIERI IN SENATO

Il dittatore ammise nel Senato i deputati dei prigionieri. Il capo di costoro così parlò: "O Marco Giunio, e voi, Padri coscritti, nessuno di noi ignora che da nessuna città più che dalla nostra si son sempre tenuti a vile i prigionieri; peraltro, se noi non siamo attaccati alla nostra causa più del giusto, non mai caddero in potere dei nemici altri che meno di noi voi doveste disdegnare. Ché non sul campo rendemmo per paura le armi, ma, dopo di aver combattuto a oltranza fino a sera di sopra dai mucchi dei cadaveri, ci ritirammo nell'accampamento. Il resto del giorno e la notte seguente, sfiniti dalle fatiche e dalle ferite, abbiamo difeso il vallo. Il giorno dopo circondati dal nemico vincitore e impediti di procurarci acqua, senza possibilità di aprirci una via, tra il folto dei nemici, giudicando non disonorevole, quando giacevano morti sul campo cinquanta mila dei nostri, che dalla battaglia cannense sopravvivesse qualche soldato romano, soltanto allora pattuimmo il prezzo del nostro riscatto, consegnammo al nemico le armi in cui non potevamo ormai trovare alcun soccorso. Sapevamo che anche gli avi nostri si erano riscattati con oro dai Galli, e che i vostri padri, benché rigidissimi quanto alle condizioni di pace, pure avevano mandato a Taranto deputati per il riscatto dei prigionieri. Eppure entrambe le battaglie, quella contro i Galli su l'Allia e quella contro Pirro a Eraclèa, furono tristemente famose non tanto per la disfatta quanto per il pànico e per la fuga. Montagne di cadaveri romani coprono i campi di Canne, e noi siamo superstiti della battaglia, soltanto perché ai nemici vennero meno il ferro e le forze per trucidarci. E tra noi sono anche molti i quali neppure apparvero sul campo di battaglia ma lasciati a presidio dell'accampamento, vennero in potere dei nemici, quando ci fu la resa del campo. Invero io non porto invidia alla sorte alla condizione di alcuno dei concittadini e dei commilitoni, né vorrei deprimere altri per esaltare me, stesso; ma neppure quelli che, quasi tutti gettate le armi, fuggirono dalla battaglia, non fermandosi prima d'esser giunti a Venosa o a Canosa, potranno esser preferiti a noi, se non si voglia premiare la velocità dei piedi e del correre, né potranno gloriarsi d'avere più di noi difeso la Repubblica. Valetevi pure di loro come di buoni e forti soldati, ma anche di noi, più pronti a difesa della patria perché saremo per vostro beneficio riscattati e alla patria restituiti. Voi fate leva da ogni età e condizione; sento che si armano otto mila schiavi. Non minore è il nostro numero. E possiamo essere riscattati per un prezzo non maggiore di quello per cui si sono comprati costoro; se confrontassi noi con loro farei in giuria al nome romano. E anche questo io vorrei credere, o Padri coscritti: che in codesta vostra deliberazione, quando pure vogliate essere molto duri, e lo sareste senza che noi lo meritiamo pensiate a qual nemico ci abbandonereste: se ad un Pirro che trattò i prigionieri in guisa di ospiti, o a un barbaro, a un cartaginese, che è difficile dire se sia più avido o più crudele. Se vedeste le catene, lo squallore, l'invilimento dei Vostri concittadini, la loro vista vi commoverebbe non meno che se dall'altra parte miraste le vostre legioni abbattute nei campi cannensi. Potete vedere l'ansia e il pianto dei nostri congiunti che son qui nel vestibolo della Curia e aspettano la vostra risposta. Se essi sono in così ansiosa attesa per noi e per quelli che son lontani, quale credete che sia l'animo di coloro dei quali son minacciate la vita e la libertà? Ma se, per il Dio della Fede, Annibale pur volesse, contro la sua natura, essere mite verso di noi, non penseremmo di dover più vivere qualora vi fossimo sembrati indegni d'essere riscattati. Ritornarono un tempo a Roma prigionieri restituiti senza riscatto da Pirro, ma ritornarono insieme coi deputati, i maggiorenti della città, mandati a lui per riscattarli. Tornerei io in patria cittadino non valutato trecento quadrigati? Padri coscritti, ognuno ha la propria fierezza. So che la mia vita e la mia persona è in pericolo; ma più mi cruccia il pericolo della mia dignità, se dovessimo partire di qui respinti e condannati da voi; ché nessuno crederà che voi abbiate voluto risparmiare la spesa. "

 

CAP. LX– DISCORSO DI MANLIO TORQUATO

Come quello ebbe finito, tosto da quella folla adunata si levò un clamore lamentoso; estendevano le mani verso la Curia, implorando che lor si rendessero i figli, i fratelli, i congiunti. L'ansia e l'occasione avevan mescolato nel Foro alla folla degli uomini anche le donne. Il Senato, licenziati i presenti, iniziò la consultazione. Varii erano i pareri, pensando alcuni che il riscatto si dovesse fare a spese, dello Stato, altri che nessuna spesa dovesse gravare su l'erario, ma che non si dovesse impedire il riscatto da parte dei privati, e che se a qualcuno mancasse sul momento il denaro questo fosse prestato dall'erario, con garanzia di poderi e di mallevadori. Allora Tito Manlio Torquato, uomo di antica e, come ai più pareva, troppo rigida severità, richiesto del suo giudizio, si dice che parlasse nel modo seguente. " Se i deputati avessero chiesto soltanto il riscatto per quelli che sono in mano del nemico, senza accusare nessuno, mi sarei sbrigato con poche parole; che altro infatti avrei potuto consigliarvi, se non che vi conformiate al costume tramandato dagli avi con esempio necessario alla militare disciplina? Ma ora, poiché essi si son quasi gloriati dell'essersi arresi ai nemici, e hanno dichiarato di dover essere preferiti non solo ai presi dal nemico sul campo ma anche a quelli che ripararono a Venosa e a Canosa e anche allo stesso console Caio Terenzio, non lascerò, o Padri coscritti, che voi ignoriate nulla di quello che accadde laggiù. Ed oh se le cose ch'io sono per dirvi potessi dirle a Canosa in presenza dell'esercito stesso, il migliore testimonio della viltà e del valore di ciascuno! o se almeno fosse qui anche il solo Publio Sempronio! Ché se lo avessero seguìto costoro sarebbero oggi soldati in un campo romano, non prigionieri in poter del nemico! Ma, benché i nemici fossero ormai stanchi, e lieti della vittoria, e rientrati la maggior parte nei loro accampamenti, e costoro avessero propizia la notte a balzar fuori, e, settemila quali erano, ben potessero aprirsi il varco anche tra nemici foltissimi, essi né tentarono di farlo da sé stessi né vollero seguire altri. Quasi tutta la notte Publio Sempronio Tuditano non cessò di esortarli, di incitarli perché, fin che pochi erano i nemici intorno al campo, fin che tutto era quiete e silenzio, fin che la notte poteva occultare il tentativo, lo seguissero: prima, di giorno sarebbero potuti giungere in luoghi sicuri, in città di alleati. Se, come fece ai tempo degli avi Publio Decio, tribuno dei soldati nel Sannio; se, come al tempo della nostra giovinezza, disse Calpurnio Fiamma durante la precedente guerra pùnica a trecento volontarii, nel condurli a occupare un'altura in mezzo ai nemici "Moriamo, soldati, e con la nostra morte liberiamo dall'assedio le legioni accerchiate "; se, questo dicesse Publio Sempronio, né uomini né romani egli davvero vi stimerebbe, qualora nessuno gli si facesse compagno in tanto valore. Egli vi mostra la via che conduce non tanto alla vittoria quanto alla salvezza, vi ritorna alla patria, ai genitori, alle mogli e ai figli. Vi manca il coraggio per salvarvi; che cosa fareste se bisognasse morire per la patria? Giacciono intorno a voi cinquantamila tra cittadini e alleati, tagliati a pezzi in un giorno intorno a voi. Se non vi muovono tanti esempii di valore, nulla mai vi moverà; se tanta strage non vi ha resa vile la vita, nessuna altra la renderà. Liberi e incòlumi bramate la patria; ma bramatela fin ch'essa è patria, fin che siete cittadini suoi; tardi la desiderate adesso, quando siete degradati, privi del diritto civile, divenuti schiavi dei Cartaginesi. Tornerete per denaro là d'onde partiste per viltà e per dappocaggine? Non ascoltaste Publio Sempronio che vi comandava di dar di piglio alle armi e di seguitarlo; poco dopo avete ascoltato Annibale che vi comandava di cedere il campo e di consegnare le armi. Sebbene, perché io accuso costoro di viltà, quando posso accusarli di crimine? Non solo, infatti, rifiutarono di seguire chi ben li consigliava, ma anzi tentarono di resistergli e di trattenerlo, se i più prodi non avessero a mano armata respinto i codardi. Questo dico: che Publio Sempronio dovette aprirsi un varco prima fra i concittadini che fra i nemici! Siffatti cittadini può desiderare la patria? ella che, se gli altri fossero stati simili a costoro, non avrebbe oggi alcuno dei cittadini che combatterono a Canne? Di sette mila armati, seicento ve ne furono che osarono eromper fuori, che tornarono alla patria liberi e armati; e a questi seicento non osarono resistere i nemici; quanto più sicuro pensate voi che sarebbe stato il passaggio di due legioni? Padri coscritti, voi avreste ora a Canosa venti mila armati forti e fedeli. Ora, come possono essere buoni e fedeli costoro (ché forti non se lo direbbero certo neppur essi!), se non li voglia credere tali qualcuno perché giovarono, tentando di far loro opposizione, a quelli che volevano far la sortita o se non pensi che essi non desiderarono la salvezza e insieme la gloria che quelli si acquistarono sapendo che la viltà e la paura sarebbero state per essi cagione di servitù ignominiosa? Preferirono aspettare appiattati nelle tende il mattino e il nemico, mentre potevano trarsi fuori nel silenzio della notte. Ma, [dirà qualcuno], se mancò loro il coraggio di eromper fuori dal campo, ebbero il coraggio di difendere il campo valorosamente; assediati per alcuni giorni e alcune notti, difesero il vallo con le armi, sé stessi, col vallo; infìne, tutto avendo osato e sofferto, privi d'ogni sostentamento e più non potendo, sfìniti dalla fame, reggere le armi, furono vinti non dalle armi ma dalla umana necessità. Sorto il sole, il nemico si avvicinò al vallo; è prima della seconda ora, senza aver punto tentata la sorte delle armi, consegnarono le armi e sé stessi. Questa fu l'opera militare che vi prestarono costoro per due giorni! Quando avrebbero dovuto resistere e combattere sul campo, allora si rifugiarono negli alloggiamenti; quando avrebbero dovuto difendere gli alloggiamenti, allora consegnarono gli alloggiamenti: disutili in battaglia come nell'accampamento. Che io vi riscatti? Quando bisogna sortire dal campo, esitate e non ne uscite; quando bisogna restarvi, quando bisogna difendere il campo con le armi, voi consegnate e il campo e le armi e voi stessi al nemico! Io penso, o Padri coscritti, che vi sia tanta ragione di riscattar costoro quanta di consegnare ad Annibale quelli i quali eruppero dal campo attraverso il folto dei nemici, e col loro sommo valore restituirono sé stessi. alla patria.

 

CAP. LXI– IL RISCATTO RIFIUTATO

Dopo che Manlio ebbe finito di parlare, benché tra i prigionieri vi fossero molti congiunti di senatori, ebbe potere su gli animi, oltre l'uso della. città fin dai tempi antichi non molto indulgente verso i prigionieri, anche la somma del denaro, di cui non volevano provare l'erario, dopo la grossa spesa già fatta per riscattare e armare gli schiavi, come non ne volevano arricchire Annibale, che specialmente di denaro, secondo che diceva la fama, era scarso. Quando fu data la triste risposta che i prigionieri non sarebbero stati riscattati, e nuovo lutto si aggiunse al precedente per la perdita di tanti cittadini, i deputati furono tra grandi pianti e gemiti ricondotti alle porte. Uno di essi se ne andò a casa, perché si era sciolto dal giuramento con quel suo fallace ritorno al campo. Come ciò si riseppe, e fu riferito al Senato, tutti furon d'avviso ch'egli dovesse essere preso e, sotto scorta, rimandato ad Annibale. V'è anche un'altra tradizione su questi prigionieri: che dapprima ne vennero dieci, e che, essendosi dubitato in Senato se si dovessero ammettere o no in città, furono poi ammessi escludendoli però dall'essere ricevuti in Senato. E poiché essi indugiavano oltre la comune aspettazione, sopraggiunsero tre altri deputati, Lucio Scribonio e Caio Calpurnio e Lucio Manlio. Allora un tribuno della plebe congiunto di Scribonio aveva fatto la proposta che si redimessero i prigionieri, ma il Senato aveva deliberato che non si dovessero riscattare; e i tre nuovi deputati erano tornati da Annibale mentre i dieci precedenti restarono perché si eran sciolti dal giuramento tornando presso Annibale a verificare i nomi dei prigionieri; e gran disputa ci fu in Senato se si dovessero rimandare, e per pochi voti rimasero soccombenti quelli che eran d'avviso che rimandare si dovessero; e sotto i nuovi censori essi furono poi tanto coperti d'infamia e di biasimo, che alcuni si diedero senz'altro la morte, e tutti gli altri restarono poi fin che vissero non solo esclusi dal Foro ma anche, quasi, dalla vita pubblica e dalla luce. E' più facile stupirsi di tanto disaccordo tra gli scrittori che discernere quale sia il vero. Quanto poi quella rotta sia stata più grave d'ogni altra precedente è dimostrato anche da ciò, che la fedeltà degli alleati, rimasta fino a quel giorno ferma, allora cominciò a venir meno, certo non per altro che perché avevano disperato dell'impero. Questi sono i popoli che passarono ai Pùnici: i Campani, gli Atellani, i Calatini, gli Irpini, parte degli Apuli, i Sanniti tranne i Pentri, tutti i Bruzii, i Lucani; oltre a questi gli Uzentini e quasi tutte le marine greche, i Tarentini, i Metapontini, i Crotonesi e i Locresi, e tutti i Galli Cisalpini. E tuttavia queste disfatte e queste defezioni di socii non indussero mai i Romani a parlare di pace, né prima della venuta del console a Roma né dopo ch'egli fu tornato ed ebbe rinnovato la memoria della disfatta. In quel frangente anzi la città ebbe sì grande l'animo che al console, tornante da sì immane sconfitta della quale egli era stato la principal causa, non solo mosse incontro gran folla d'ogni classe ma anche furono rese grazie perché non aveva disperato della Repubblica, mentre, se fosse stato un comandante cartaginese, avrebbe patito ogni più atroce supplizio.

 

Estratti del Libro XXV

BIBLIOGRAFIA

STORIA DI ROMA dalla fondazione - Traduzione di Gian Domenico Mazzocato

GRANDI TASCABILI ECONOMICI NEWTON

Newton & Compton editori s.r.l. - Roma - ottobre 1997

 

CAP. XII

I consoli e i pretori furono trattenuti a Roma dalle Ferie latine fino al ventisette aprile: in quel giorno, celebrato il sacrificio sul monte Albano, ripartirono per le rispettive zone di operazioni. Un nuovo scrupolo religioso nacque poi dalle profezie di Marcio. Questo Marcio era stato un vate rinomato: quando l'anno prima un senatoconsulto aveva disposto la ricerca di libri di quel genere, i suo vaticini erano giunti nelle mani del pretore urbano Marco Emilio che si occupava di quella faccenda. Egli ne aveva subito consegnate al nuovo pretore Silla. Due erano le profezie di Marcio: l'autorità della prima - venuta alla luce dopo che il fatto era accaduto e dunque avvalorata dal fatto di essersi dimostrata veritiera - aggiunse credibilità anche alla seconda, il cui tempo non era ancora venuto. La prima profezia vaticinava il disastro di Canne pressappoco con queste parole: "O discendente dai Troiani, fuggi il fiume Canna, perché gente straniera non ti costringa a venire a battaglia nella pianura di Diomede. Tuttavia tu non mi crederai, finché non avrai riempito di sangue la pianura, finché il fiume non porterà dalla terra feconda al vasto mare molte migliaia di tuoi morti; la tua carne deve diventare cibo per i pesci, per gli uccelli, per le fiere che popolano le terre". E quelli che avevano militato in quei luoghi riconoscevano i campi di Diomede di Argo e il fiume Canna, così come riconoscevano il disastro stesso.